Durante il recente convegno nazionale su “Digital Italy 2018” il ministro Giulia Bongiorno ha severamente criticato l’utilizzo di inglesismi nella prassi tecnologica della pubblica amministrazione italiana, sostenendo che l’uso di termini stranieri è un fattore che impedisce l’inclusione nei processi di innovazione digitale di gran parte del personale della Pa che non capisce l’inglese. Non male come punto di partenza per discutere dell’effettivo straripare della lingua britannica in Italia non solo nella pubblica amministrazione, ma nelle scuole, nella musica, nelle leggi, sui giornali.



Se si guarda bene, non c’è articolo di giornale in cui non si ritrovi almeno un termine inglese che potrebbe benissimo essere sostituito da un altrettanto consono termine italiano. Fino agli anni 50 questo fenomeno in Italia si verificava con la lingua francese, laddove faceva molto chic (appunto!) usare termini francesi, e non solo in Italia, dato che pare che alla corte dello Zar, fintanto che esistette, si parlasse francese. Da una sessantina di anni questo vezzo è diventato appannaggio della lingua inglese, che ha sommerso il nostro parlare, ma anche la nostra mente: chiunque sa enumerare vari cantanti inglesi o americani, attori, città, proverbi, espressioni anglofone, ma sfido chiunque a citare un solo autore di film svizzero, un solo cantante tedesco, un solo proverbio francese. E questo è un difetto italiano, dato che in tutti i Paesi ispanici questo non avviene, così come nei paesi francofoni o in Germania.



Non succede in Russia, non succede in Grecia, non succede in Olanda: se in Francia accendi una radio senti canzoni francesi, se l’accendi in Spagna o Argentina o Messico le senti in spagnolo; sentirai canzoni tedesche in Germania. Solo in Italia accendi radio o tv e senti solo cantare “I love you” anche da cantanti di Frascati o di Cinisello Balsamo (con una pronuncia poi da accapponare la pelle). D’altro canto, è sotto gli occhi di tutti la scarsa conoscenza dei giovani d’oggi della grammatica italiana (che non si insegna più nelle scuole) e degli autori classici o moderni di letteratura nostrana. 

Pier Paolo Pasolini fu uno strenuo difensore della lingua italiana, con una speciale attenzione a ciò che di essa era madre: la lingua latina e i dialetti. Il latino ed il dialetto come difesa per non abiurare il proprio modello culturale e umano, in antitesi al nuovo modello aziendale, industriale, televisivo che, essendo la classe dominante a creare e a volere, tende ad omologare. Codici linguistici come forma di resistenza contro l’omologazione culturale imperante finalizzata a “consumare” meglio: cifre che la nuova cultura industriale sapeva di dover mettere da parte per uniformare i cittadini al linguaggio dei consumatori, educati in primis dal linguaggio televisivo. “La cultura che essi producono — scriveva Pasolini — essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio ‘uomo’ che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto ‘mezzo tecnico’, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere”.

Questo potrebbe dirsi anche per l’alluvione di lingua inglese, che sottilmente fa slittare il parlare da uno stile umanistico ad uno stile tecnologico (ogni parola inglese assume di per sé una valenza scientifica e tecnologica); ma anche aiuta nel suo intento chi non vuole farsi capire o chi vuol fingere di dire una cosa importante mentre sta dicendo banalità. L’uso della lingua inglese non è forse l’antidoto alla biodiversità linguistica formata da dialetti e lingue, per arrivare ad una omologazione sociale? La scomparsa del latino dalle scuole, con la scusa di fare scuole “al passo delle esigenze dell’industria” non è che uno degli ultimi tristi passi di questa involuzione. Così come la scomparsa del tema di italiano e magari l’abbondante importazione di test a scelte multiple invece di risposte da saper argomentare in maniera comprensibile. Ma un popolo che si sa esprimere e che nel suo parlare ritrova l’eco del parlare dei suoi avi (latino) e dei suoi nonni (dialetto) è difficilmente asservibile.

Oltretutto rileviamo che paradossalmente i termini che usiamo di italenglish sono termini inglesi per modo di dire: basti pensare che nessun inglese con le parole “spot”, “soap”, reality” intenderebbe di primo acchito quello che intendiamo noi; oppure usiamo termini inglesi che nemmeno gli inglesi usano più. Comunque pare essere un vezzo solo italico, se è vero che, per esempio, i nostri vicini del Canton Ticino si rifiutano di chiamare i leggings col termine inglese.  

E’ la morte della lingua italiana, non tanto l’assedio di quella inglese che dobbiamo celebrare e se possibile evitare. La morte della lingua italiana che fa impazzire anche gli insegnanti di inglese, perché come si fa a insegnare un congiuntivo inglese se i ragazzi mai hanno sentito parlare di congiuntivo in italiano? O come si fa a parlare di “genitivo sassone” se nessuno fa più latino e nessuno sa che diavolo sia un genitivo? I telefonini con le loro “chat” accorrono alle esequie dell’italiano e concorrono alla morte di un’altra benemerita musa: l’arte dello scrivere a mano, che ha fatto strage del corsivo e ha fatto disimparare non solo a scrivere ma a coordinare i movimenti occhi-mano-cervello.

Ma un segno di rinascita lo cogliamo e trapela da un tratto piccolo e per alcuni insignificante, ma non per le mamme e le maestre: la persistenza delle filastrocche infantili, che resistono per tradizione orale alla valanga di canzoncine per bambini, di giocattoli intelligenti, di videogiochi che inondano i piccoli di fonemi inglesi. Stranamente i carillon moderni parlano inglese, ma i bambini si ostinano a cantare italiano. Li fanno sentire “meno intelligenti” se continuano, ma loro imperterriti non cedono.