È di questi giorni la notizia scioccante della madre 26enne arrestata lunedì 3 dicembre con l’accusa di aver ucciso il figlio di tre mesi gettandolo violentemente a terra. Il fatto è stato riportato da tutti i media in modo scarno e privo di qualsiasi commento. Come si dice: “quando è troppo è troppo!”. Così anche l’innata curiosità umana è sembrata (per una volta) ritirarsi in silenzio, forse più per imbarazzo che per autentica discrezione.



Non è stato così per i medici dell’ospedale di Catania, che dopo aver fatto il possibile per salvare il piccolo si sono sentiti in dovere di andare a fondo del racconto, incoerente e confuso, che la giovane madre dava loro dei tragici fatti. La segnalazione dell’accaduto alle forze dell’ordine è stato per i medici un atto dovuto. Ne sono seguite le prime indagini che hanno fatto vacillare la versione dalla madre circa un fortuito incidente domestico. La prima versione ha dunque lasciato il posto ad un’altra ben più cruenta e amara: il bambino è stato scagliato sul pavimento dopo essere stato precedentemente scosso con violenza. Ai fatti pare abbiano assistito dei testimoni, che non sono però stati in grado di intervenire.



Il bimbo portava il cognome della madre: l’indizio di una condizione di solitudine e forse di abbandono in un momento della vita della donna, quello della nascita di un figlio, che assieme a motivi di orgoglio e contentezza ne può portare molti altri di ansia e di preoccupazione.

Per chi scrive non è un caso che il padre naturale del figlio sia stato tra i primi (assieme alla nonna materna) a essere chiamato dalla madre, resasi conto delle gravissime condizioni del neonato. Del padre della donna, rimasto vedovo quindici anni fa, quando lei ne aveva undici, la cronaca ci informa che aveva fissato per la figlia degli appuntamenti con alcuni specialisti, perché valutassero la sua condizione psicologica che, almeno ai famigliari, appariva compromessa. Lei però non aveva dato seguito all’iniziativa del padre e dagli specialisti non ci era mai andata.



Non era consapevole del suo stato di malessere? Quello che ora il suo legale, anche ai fini processuali, chiama “depressione post-partum”? Era la prima volta che scuoteva il figlio? Che gli urlava addosso? Che lo lanciava, magari sul letto? Che non interveniva in modo adeguato ai bisogni primari del piccolo? Che provava sentimenti di sconforto pensando al suo rapporto con lui? Sono alcuni segnali di allarme di cui la madre avrebbe potuto accorgersi nei tre mesi trascorsi dalla nascita del figlio. Segnali, se ci fossero stati, più che sufficienti per aprirsi a una richiesta d’aiuto.

Ho parlato di segnali d’allarme. Ciò che, infatti, dall’esterno può sembrare un raptus, un colpo di testa, un fulmine a ciel sereno, è invece molto spesso preannunciato da tanti piccoli (e non solo piccoli) segnali di cui la madre per prima (e chi ha con lei una frequentazione) può accorgersi. In questo consiste la responsabilità anche di chi è malato sotto il profilo psichico: di non censurare i segnali di malessere, di farsene carico concedendo a chi potrebbe portare un aiuto almeno un minimo spazio di intervento. Nella domanda di aiuto o di cura tutti siamo irripetibili e insostituibili. Se la nostra porta resta chiusa, anche il più perfetto dei sistemi socio-assistenziali sarà condannato al fallimento.

Veniamo all’accusa. La giovane madre è accusata di omicidio aggravato e anche questo aspetto suscita molti interrogativi. Perché, ad esempio, non si invoca l’infermità mentale? Sappiamo che la madre ha dichiarato di “non aver avuto l’intenzione di uccidere il figlio”, di “stare male” e di “aver avuto la mente oscurata”, ma questo non è stato sufficiente al pubblico ministero per astenersi dal formalizzare l’atto accusa.

Quello del magistrato potrà sembrare un insensibile accanimento, magari anche pregiudizievole per la salute di una persona già sofferente, eppure lo stesso atto d’accusa custodisce un estremo atto di stima nei confronti delle residuali potenzialità umane e psicologiche della giovane madre.

In un modo forse controintuitivo l’atto d’accusa è l’offerta di un monito, a futura memoria: non era necessario che le cose andassero così. Un’alternativa è sempre possibile, un aiuto, come gli appuntamenti che il padre le aveva prenotato e forse altri di cui non abbiamo notizia, è spesso più vicino e accessibile di quanto nel buio della disperazione non si riesca a credere. Ma accedervi non è mai automatico, perché la domanda di cura è sempre un’iniziativa personale: umile e coraggiosa allo stesso tempo.

Che avesse ragione il vecchio Kelsen (1881-1973) a sostenere che non siamo imputabili perché liberi, ma, al contrario, siamo liberi perché imputabili? Sta al pm di turno farsi carico di realizzare il principio, all’apparenza paradossale, del famoso giurista.