In questi ultimi giorni dopo il ritrovamento del corpo martoriato di Pamela Mastropietro tutti parlano di “mafia nigeriana” come se si fosse scoperto qualcosa di inedito nel nostro paese. In realtà la mafia nigeriana è presente in Italia dai primi anni duemila, ben prima del fenomeno delle migrazioni di massa, ed è stata fortemente combattuta dalle nostre forze dell’ordine con blitz mirati che hanno portato in carcere dozzine di appartenenti. Eppure in questi circa quindici anni di presenza, la mafia nigeriana non si era mai resa protagonista di un caso così efferato. Per il criminologo Luca Steffenoni, però, “parlare di mafia è sinceramente troppo presto, anche perché nessun tipo di mafia ha interesse ad attirare l’attenzione dei mass media con episodi così eclatanti”. Piuttosto, dice ancora, “c’è del vero in quello che ha detto il professor Alessandro Meluzzi, e cioè che siamo davanti a un tipo di violenza che proviene da paesi lontani negli usi e costumi, etnie portatrici di modalità aggressive cui noi non siamo abituati e con cui dovremo fare i conti”.



Steffenoni, tutti accusano la mafia nigeriana, che però è ben presente in Italia da molti anni. Cosa porterebbe a collegare il caso Mastropietro con questa organizzazione criminale?

Si può fare interpretando che ci sia qualcosa che vada oltre la violenza del branco, ma secondo me parlare di mafia è troppo presto. Da che mondo è mondo nessun tipo di mafia ha interesse a catalizzare l’attenzione dei mass media con episodi così eclatanti.



C’è però chi dice che le valigie con i resti di Pamela sono state abbandonate in un modo che aiutasse a notarle quando gli autori avrebbero potuto pensare a nascondigli più sicuri.

Se così fosse allora sì che si potrebbe parlare di mafia. Se interpretiamo l’abbandono delle valigie come qualcosa che deve essere segnalato, allora entriamo nella modalità mafiosa, che fa un’azione di minaccia esemplare perché si sappia che chi non paga farà la stessa fine. Sinceramente però ne dubito, non la vedo come una cosa fatta apposta.

Quale dunque la sua opinione di quanto successo, pur avendo ancora così pochi elementi?



A me sembra si sia entrati nel mondo tipico del tossicodipendente. Pamela conosceva almeno una di queste persone a cui si è rivolta per la droga, probabilmente c’è stato l’approccio sessuale che lei ha rifiutato difendendosi, una probabile overdose, la droga magari era tagliata male. Ma non vedo questo caso inserito in qualcosa di più grosso.

Le ultime analisi parlano di due coltellate mortali al fegato.

Vorrei vedere i risultati, ma l’autopsia è ancora molto molto vaga. Su queste cose bisogna stare molto attenti a quel che si dice.

Le quattro persone fermate si sono trincerate nel silenzio più assoluto, si dice che temano una quinta persona coinvolta di cui hanno paura, che ne pensa?

Che il cerchio possa essere più ampio è probabile, però teniamo conto che la prima cosa che un avvocato dice al suo cliente finché non ci sono elementi più precisi e i risultati definitivi dell’autopsia, è di tacere. Il tipo di incriminazione può variare molto, stanno in silenzio per un discorso tecnico difensivo e penale. Sarei cauto anche qui a fare un quadro più complesso.

Resta l’efferatezza di quanto compiuto, la scomparsa del cuore, il corpo martoriato. E’ vero che abbiamo assistito a casi analoghi anche nel mondo dell’alta borghesia romana; lei che idea si è fatto a proposito di questa violenza?

E’ un segnale d’allarme, le modalità e l’etnia hanno qualcosa in comune. Il professor Meluzzi, che è tutt’altro che un incompetente, ha parlato di aspetti rituali e magici, ne terrei conto. 

In che senso? Lo sballo con le droghe moderne produce situazioni allucinanti, lo abbiamo già visto. 

In ambiente di droga di casi efferati ce ne sono, bisogna però anche fare i conti con un tipo di violenza che proviene da paesi lontani dal nostro negli usi e costumi, etnie portatrici di modalità aggressive cui non siamo abituati e con cui dovremo fare i conti.

(Paolo Vites)