La decisone della Corte d’Assise di Milano nel processo a carico di Marco Cappato – l’esponente radicale che aveva accompagnato il 25 febbrai 2017 Fabiano Antoniani, detto Dj Fabo, nella clinica svizzera Dignitas ove si verificò il suicidio assistito di quest’ultimo – di sospendere il dibattimento e di rimettere alla Corte costituzionale la decisone sulla legittimità costituzionale della norma incriminatrice contestata allo stesso Cappato, non ha certo colto di sorpresa. Gli stessi difensori dell’imputato (oltre che i pubblici ministeri chiamati a rappresentare l’accusa), infatti, avevano chiesto di assolvere l’imputato o comunque — in subordine — di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., la norma penale che sanziona la condotta di “istigazione o aiuto al suicidio“, ed in tale ultimo senso si sono orientati i giudici milanesi.   



Per comprendere il contenuto e la portata dell’ordinanza di rimessione pronunciata dalla Corte d’Assise di Milano vanno chiariti, in breve sintesi, i termini della vicenda giudiziaria oggetto della decisione, senza peraltro addentrarsi qui nel lungo e drammatico percorso storico e psicologico che ha condotto Dj Fabo — dopo anni di inutili tentativi di cura ed in condizioni di sofferenza talvolta atroce e non lenibile — a maturare lucidamente la decisone di porre fine alla sua esistenza.



Marco Cappato veniva tratto a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Milano per l’ipotesi di reato di cui all’art. 580 c.p. per avere “rafforzato” il proposito suicidario di Fabio Antoniani (prospettandogli la possibilità di ottenere assistenza al suicidio presso la clinica svizzera Dignitas) ed inoltre per avere “agevolato” l’attuazione dell’intento di suicidio (avendo trasportato Antoniani con la propria auto presso la sede della clinica). 

L’istruttoria dibattimentale, secondo i giudici milanesi, avrebbe accertato che, se da un lato Cappato aveva certamente agevolato sul piano materiale il progetto suicidario di Dj Fabo (avendolo trasportato presso la clinica elvetica ed avendolo assistito durante l’operazione di somministrazione dei farmaci letali), d’altro lato la sua condotta non aveva in alcun modo influito sulla determinazione di quest’ultimo di sottoporsi al suicidio assistito, trattandosi di una decisione che Antoniani aveva lucidamente ed autonomamente assunto dopo avere maturato la consapevolezza dell’inesistenza di cure idonee a fronteggiare la malattia. 



D’altra parte, il fatto che l’imputato non avesse esercitato alcuna influenza sulla decisone del malato di porre fine alla propria esistenza e non avesse dunque “rafforzato” la sua decisone di suicidarsi, non può assumere nessuna rilevanza nell’attuale ordinamento penalistico, dato che l’art. 580 c.p. sanziona (con la medesima pena) anche il semplice fatto dell’agevolazione materiale del suicidio. Di qui la decisone dei giudici milanesi di investire la Corte costituzionale affinché dichiari la illegittimità della predetta norma sanzionatoria penale nella parte in cui prevede che debbano essere incriminate anche le condotte di semplice aiuto al suicidio, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito suicidario. 

In sintesi estrema, così argomentano i giudici della Corte d’Assise di Milano nell’ordinanza di rimessione, diversi principi “eurounitari” (fatti propri dal nostro ordinamento costituzionale), e in particolare l’art. 2 e l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), riconoscono all’individuo la libertà di decidere quando e come morire: per questo motivo punire la condotta di chi, senza alterare o condizionare l’esercizio di simile facoltà, si limiti ad agevolare l’attuazione di tale libertà di scelta sarebbe irragionevole (in violazione dell’art. 3 Cost.) e contrastante con l’art. 117 Cost. che recepisce e rende cogenti per l’ordinamento nazionale i principi Cedu citati.

Da notare che l’art. 2 della Cedu — sulla cui portata principalmente fa leva, per l’appunto, la decisione dei Giudici milanesi — non parla affatto di libertà dell’individuo di “decidere quando e come vuole morire“. Anzi, a ben vedere, la norma convenzionale europea proclama e tutela esattamente l’opposto: il “diritto alla vita”. Tuttavia attraverso la lenta e progressiva “evoluzione” ermeneutica della giurisprudenza della Corte di Strasburgo si è giunti in anni recenti (vedi, tra le altre, la sentenza Cedu Haas v. Svizzera del gennaio 2011) ad attribuire al “diritto alla vita” il significato di “diritto ad una vita dignitosa”, conferendo così alla libertà dell’individuo di por fine alla propria vita (quando la stessa non sia più ritenuta, anche a causa delle sofferenze e della malattia, dignitosa) il rango di principio riconosciuto e garantito dall’ordinamento.

Insomma, dal diritto alla vita al suo opposto — il diritto di morire quando e come si vuole, appunto — attraverso un singolare percorso interpretativo dei principi che pare evidente espressione della fragilità e della confusione con la quale il comune sentire percepisce i valori portanti dell’umana convivenza.

Non sappiamo se la Corte costituzionale accoglierà l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. sollevata dalla Corte d’Assise di Milano. E’ certo, peraltro, che, laddove il Giudice delle leggi dovesse decidere in conformità alla richiesta dei giudici milanesi, il dibattito politico e le prospettive legislative in punto di “libertà di scegliere di morire” da parte del malato potrebbero spingersi ben oltre quanto prevede già oggi le recente normativa in materia di testamento biologico. 

Ma il tema forse merita più ampie riflessioni da destinare ad un successivo articolo.