In questo inizio del 2018 le cronache sono piene di episodi che raccontano di studenti o genitori che aggrediscono gli insegnanti. L’ultimo riguarda un ragazzino della provincia di Forlì che ha sferrato un pugno a una docente, avvicinatasi per convincerlo a cambiare atteggiamento in classe, ma altri fatti sono già accaduti a Foggia, Avola, Piacenza e Caserta. “Almeno da noi i problemi sono circoscritti a piccoli scontri, negli Stati Uniti le armi da guerra falciano docenti e studenti, causando stragi orribili” ha commentato un professore di lettere fiorentino. 



Le proporzioni sono notevolmente diverse, ma il problema del rapporto scuola-famiglia sussiste anche da noi. Alla scuola dell’infanzia c’è un’eccessiva presenza degli adulti e un bimbo ha generalmente quattro nonni e due genitori che si preoccupano di lui. Qui sono già in evidenza le ansie iperprotettive di molte madri e le fragilità delle coppie appaiono sul volto dei figli.



Le ansie da prestazione diventano evidenti alla primaria, ma spesso la classe docente non riesce a far fronte all’eccessiva attenzione degli adulti sui bambini. Il mondo dei genitori è già diviso: a occuparsi dei figli ci pensano le madri e la maggior parte dei padri è già scomparsa dall’orizzonte scolastico. L’idolo delle mamme trentenni è il nutrizionista e uno dei temi più discussi davanti ai portoni è il menù della mensa. 

Sul far delle medie i ragazzini hanno già visto tutto, grazie alla potenza penetrante della tv e del web e una scuola ammalata di “inclusività” a tutto campo non permette ai giovani allievi di capire i propri limiti. Quei limiti nelle relazioni, per cui ogni cosa è permessa e secondo molti genitori nessuno deve limitare questi rampolli per non soffocarne la crescita. E quei limiti nella conoscenza, per cui tutto dev’essere facile e accessibile e l’insuccesso non è ammissibile. 



Eppure nascono proprio qui i gravi danni linguistici e logico-matematici, ma nessuno, neanche la scuola, se ne accorge. Le prime avvisaglie di bullismo iniziano a manifestarsi tra gli undici e i tredici anni, indizio importante che si aggiunge a tanti altri disagi della prima adolescenza, punto critico di una gioventù che comincia molto precocemente a perdere i contatti con il mondo degli adulti. 

Al tempo stesso chiediamoci: cosa i grandi hanno da dire ai piccoli?  Li occupano in mille attività e così contribuiscono alla prevalenza del fare sull’essere. Una docente notava alcuni giorni fa su un noto quotidiano che già i bimbi della scuola dell’infanzia oltre ai mille sport vengono iscritti, nel fine settimana o dopo la scuola, a laboratori creativi in cui sperimentano tecniche di manipolazione, visive e creative. Si trovano al centro di una sollecitazione martellante e continua. Il risultato, commentava sempre quella maestra, è la diminuzione dello stupore. Le attività che proponiamo sono superate nei fatti e spesso già a cinque anni li si vede poco reattivi, poco attenti e meravigliati. Sono vittime di una cura ossessiva del corpo, che esclude l’anima. Sì l’anima, quella di Platone e di Agostino, di cui non si parla più. Quella dimensione profonda di ciascuno, che bisogna scoprire ed essere abituati a considerare. Ed ecco che a quindici anni o non ci si aspetta più niente, oppure il desiderio, quello vero, non è ancora sbocciato. E con un’umanità azzoppata, ridotta, prevalgono l’arroganza e la pretesa.

Non sembra inoltre del tutto convincente la tesi di Ferdinando Camon, che su Avvenire, riguardo all’aggressione di un professore da parte di un padre avvenuta a Foggia, ha scritto che il ragazzo vive “la barbarie a casa, la civiltà a scuola”. La scuola, è vero, non è la panacea di tutti i mali, non può supplire alle mille mancanze, al vuoto culturale, morale e razionale, che si è insinuato in questo cambiamento d’epoca. Alla scuola non si possono chiedere le mille educazioni che mancano agli adolescenti, ma è anche vero che essa non sembra all’altezza del proprio compito. Sembra avere smarrito la propria vocazione, per cui il compito dei docenti spesso non è chiaro nemmeno a loro. Se a quattordici anni due terzi dei ragazzi non ha mai letto un libro (oltre a quelli di scuola) e le competenze scientifico-matematiche nel biennio delle superiori sono minime, qualcosa vorrà pur dire. Inoltre bisogna sottolineare che la parola “educazione” è scomparsa dalle aule scolastiche, sostituita da “competenze” e “abilità”. Se non interessa più far crescere, ma hanno la priorità “il fare, il saper fare e il saper imparare”, se alla persona si sostituisce la tecnica, c’è un mondo nuovo che deve ancora emergere.

Sino alla metà del Novecento gli adolescenti non esistevano. Dall’infanzia si passava direttamente all’età adulta. Fu il “Giovane Holden” di Salinger a svelare l’esistenza dell’età di mezzo. Oggi l’età della crescita si è notevolmente dilatata, tanto che un sentenza del tribunale di Modena dello scorso 1° febbraio ha stabilito  che si può rimanere a carico dei genitori in casa sino ai 34 anni. L’eventuale e successivo mantenimento può essere corrisposto solo fuori dal tetto natio. Ebbene cosa possiamo aspettarci da un mondo che si stupisce perché la scuola non riesce più a farsi rispettare e che gli eterni adolescenti possono arrivare alla pensione? E’ la società liquida, bellezza, avrebbe risposto enigmaticamente Humphrey Bogart.