Dopo Cesena, Giulianova. Dopo l’insegnante, il compagno. Dopo le mani, il coltello: a Cesena un quindicenne ha tirato un pugno a un professore, a Giulianova un ragazzo d’un paio d’anni più grande ha colpito con un lama al volto un compagno di classe con cui aveva avuto dei diverbi. Qualcuno scopre – un po’ in ritardo, papa Ratzinger l’aveva detto tanti anni fa… – che viviamo una “emergenza educazione”. Qualcuno ironizza amaramente che per fortuna da noi non si vendono armi, se no faremmo la fine dell’America. Qualcun altro si lancia contro l'”abolizione del voto di condotta” (ma dove? C’è sempre, ed è sempre – come ormai da diversi decenni – completamente ininfluente).
Pierluigi Castagneto su queste pagine ha svolto una lucida analisi, che non posso non condividere, del contesto culturale e sociale che ha condotto a queste situazioni. Di mio, vorrei aggiungere un paio di considerazioni, tratte solo ed esclusivamente – si perdoni l’orizzonte limitato – dalla mia esperienza ormai quasi quarantennale di insegnante.
La prima, lato docenti. I ragazzi, è vero, non hanno più rispetto. Non hanno rispetto dell’autorità, la figura dell’insegnante è socialmente squalificata e i ragazzi se ne fanno beffe. Per questo, tanti invocano il ritorno di una disciplina più severa, con regole e punizioni più serie (per una versione intelligente di questa posizione si può utilmente leggere l’Elogio della disciplina di Bernard Bueb). La mia posizione è diversa. Io non sono mai entrato in classe pensando di aver diritto, solo per il mio ruolo, al rispetto dei miei alunni. Sono sempre entrato in classe certo che il rispetto me lo dovevo conquistare io, per la mia persona, per il mio modo di stare davanti a loro. Non ho mai avuto paura di parlare la loro lingua, di non cedere alle loro provocazioni, di cercare di conquistare la loro stima nei modi che a loro potevano essere comprensibili (confesso che il mio manuale di pedagogia sono stati i meravigliosi Ricordi di scuola di Giovanni Mosca, con il memorabile primo capitolo in cui lui racconta come si è conquistato la famigerata V C sfidando il leader della classe a colpire un moscone con la fionda).
So che dico una cosa impopolare. Moltissimi miei colleghi mi hanno sempre ribattuto che sbaglio, che i ragazzi devono imparare a rispettare gli insegnanti solo perché sono tali. Posso capirli. Capisco meno perché questi stessi insegnanti non abbiano nessun rispetto per i ragazzi: sembrano considerare normale trattarli male, farsi beffe di loro, denigrarli (“Non capisci niente” è l’epiteto più garbato; per non parlare di quelli che si presentano il primo giorno di scuola dicendo più o meno: “L’anno prossimo la metà di voi non sarà più qui”…). L’ultimo esempio in ordine di tempo (ma potrei citarne mille): una mamma stamattina mi ha raccontato della maestra delle elementari di suo figlio che diceva ai compagni: “Fate finta che Tizio non esista, ignoratelo, tanto è scemo”. Ovviamente, lo diceva davanti a Tizio…
Non sto giustificando un ragazzo che prende a pugni un insegnante. Non si fa. Ma una scuola degna di questo nome avrebbe un sistema di valutazione serio degli insegnanti, andrebbe a valutare i modi del loro insegnamento, direbbe loro che certe cose si fanno e certe altre no, spiegherebbe che se vogliamo il rispetto dei nostri alunni i primi a rispettarli dobbiamo essere noi.
Seconda osservazione, lato compagni. Sempre stamattina, ho seriamente consigliato a un mio alunno di frequentare regolarmente una palestra di boxe. Non è capace di rapportarsi con i compagni se non mettendo loro le mani addosso. Come lui, sono tantissimi: si provocano, si insultano, si scazzottano un po’ per gioco, poi finiscono per picchiarsi seriamente. Può non piacerci, ma è così. Vengono da culture – stranieri o italiani, cambia poco – in cui l’unico valore è la forza. Certo, il nostro compito è insegnare loro un’altra scala di valori. Ma come si fa? Tutti lamentano che “questi ragazzi non hanno regole”. Non è vero. Hanno le regole del loro gruppo, del clan – mi si passi l’espressione – a cui appartengono. Il problema è dare loro un altro clan, un’altra appartenenza. Ma per questo le regole, la disciplina, non bastano. Certo, a furia di punizioni li buttiamo fuori, ce ne liberiamo. Ma è una buona soluzione? Per dar loro un’altra appartenenza, bisogna che incontrino adulti a cui vale la pena di appartenere. Adulti che – usiamola, la parola bandita dalle aule – vogliano loro bene.
Le regole – sintetizzo, sono già stato troppo lungo – sono una figata. San Benedetto, con una Regola, ha fatto l’Europa. Ma le regole sono la forma di un rapporto. Danno un argine perché possa fiorire un’affezione. Senza rapporto, senza affezione, non c’è regola che tenga. E per costruire un rapporto la responsabilità è dell’adulto.