Il premier Gentiloni aveva promesso che nella seduta del Consiglio dei ministri del 22 febbraio ci sarebbe stato il via libera definitivo alla riforma carceraria, dopo quarantatré anni dalla precedente. Sarebbe stata una buona riforma, tendente a creare un po’ di umanità nelle carceri: dal lavoro alle misure alternative, alla pena e alla salute dei detenuti. Una riforma voluta fortemente dal ministro Orlando, ma già annacquata negli ultimi mesi dai pareri delle Camere.



Mentre 10mila carcerati fanno lo sciopero della fame, nel silenzio della grande stampa, ieri il Consiglio dei ministri ha rimandato la riforma complessiva dell’ordinamento penitenziario ai lavori del Parlamento: il prossimo, evidentemente. Le ragioni di bottega elettorale hanno prevalso.

Mi viene naturale ripensare a ciò che io so del carcere e a ciò che ho visto e vissuto.



Mi capita, ogni tanto, di accompagnare un mio amico che lavora per una cooperativa impegnata con i detenuti: così vedo dal di dentro il mondo degli “istituti di pena”.

All’interno, una guardia ci fa costantemente strada. Non mi colpisce il classico girare delle chiavi nelle serrature: è una scena già vista tante volte al cinema o alla televisione. Mi impressionano i cancelli che si aprono appena, per lasciarci passare uno alla volta, e che vengono rinchiusi subito. L’isolamento, la separazione dal mondo, l’assenza di contatti con l’esterno sono tutti rappresentati da quei cancelli che non vengono aperti, ma socchiusi, e che subito vengono richiusi, formando un tutt’uno con l’inferriata che taglia il corridoio. Ecco, questi cancelli non chiudono “dentro” i detenuti, ma li chiudono fuori dal mondo: i cancelli sono mezzo e simbolo della reclusione e dell’assenza di comunicazione.



Ma un uomo che non comunica è ancora uomo? Si può davvero impedire all’uomo di esprimersi? Gli atti di autolesionismo sono migliaia ogni anno: forma estrema di comunicazione in cui parla il corpo ferito e non la voce. Si ingoiano lamette, ci si taglia le vene, ci si cuce con lo spago le labbra. Una cinquantina di detenuti, ogni anno, si suicidano: è l’ultima espressione della propria sofferenza.

L’amico della cooperativa mi presenta alcuni detenuti impegnati nel lavorare il marmo: sono alle prese con i fregi di una villa d’epoca e con quelli di una tomba.

“Sono proprio bravi… Potrebbero darsi al restauro di monumenti!”.

“Già fatto. Abbiamo lavorato otto anni al rifacimento delle guglie del Duomo di Milano corrose dallo smog. Poi, purtroppo, abbiamo perso la commessa…”.

“Come mai? Qualcuno costava meno di voi? Non rispettavate i tempi di consegna? Oppure…”.

“Non indovineresti mai! Lascia che ti spieghi, anche perché abbiamo bisogno che ci aiuti a trovare nuove commesse ed è necessario che tu sappia cosa sappiamo fare e, soprattutto, cosa ‘possiamo’ fare qui dentro”.

“Torniamo al Duomo…”.

“Il carcere è progettato pensando principalmente alla sicurezza e alle celle. Niente capannoni in cui possa entrare, ad esempio, un furgone. Qui siamo in un vecchio deposito trasformato in laboratorio: vedi quella porta sul cortile?”.

“Vedo che è diversa dalle altre”.

“Appunto! Inizialmente erano tutte uguali. Ci son voluti due anni per ottenere che ne allargassero una, per far entrare il muletto che trasportava il marmo e parti delle guglie. Dopo otto anni di collaborazione, il Duomo ci ha chiesto di lavorare su pezzi di dimensioni maggiori: non entravano! E così abbiamo dovuto chiudere un’esperienza che ci riempiva d’orgoglio: ci sentivamo parte della Veneranda Fabbrica e per i detenuti era un percorso di rieducazione più unico che raro: costruire cattedrali!”.

Penso alla mentalità comune: il carcerato è lì per pagare il conto con la giustizia e la rieducazione è un pallino da “anime belle”. Sembra che il mio interlocutore mi legga nel pensiero: “Un detenuto che in carcere impara a lavorare, quando esce non torna quasi mai a delinquere. Fra quelli che stanno chiusi in cella, due su tre escono e rientrano continuamente in carcere, come se per loro esistesse una porta girevole: un prezzo enorme per la società, per il costo da detenuti e per quello da malviventi quando sono liberi. Rieducare conviene! Non è il pallino di qualcuno per convinzioni etiche o religiose…”.

Penso ancora alla mentalità comune: certi valori sembrano astratti e inconciliabili con ciò che conviene. Poi si scopre che recuperare un detenuto costa molto meno che punirlo soltanto. L’uomo ha perso la fede di una volta, e — ancor peggio — ha smarrito la ragione.

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