Caro direttore,
le scrivo premettendo che non sono un esperto di immigrazione e che non mi intendo di molti aspetti tecnici e gestionali legati al problema. Ieri, tuttavia, è balzata agli onori delle cronache una vicenda relativa a questo tema che credo meriti attenzione. Lo stato italiano, nel declinare le sue politiche di accoglienza e integrazione dei migranti, predispone quotidianamente una piccola quantità di buoni, chiamata pocket money, destinata alle spese minute della persona accolta. Si tratta di una quota che conferisce al migrante dignità e responsabilità. Ebbene ieri, sia nelle Marche che a Roma, in due centri di accoglienza diversi, non sono pervenuti regolarmente questi pocket money e tale fatto ha portato ad una rivolta dei migranti stessi che si sono così barricati per ore all’interno delle due strutture ricettive, salvo poi essere sgomberati e disciplinati dalle forze dell’ordine. 



Credo che appaia a tutti che qui non ci troviamo di fronte ad una vicenda di ordine pubblico, bensì ad una dinamica più profonda e più urgente. Se da un lato scandalizzarsi per questo contributo quotidiano significa non aver compreso che gli immigrati vanno guidati all’interno di un processo di crescita sociale e personale, dall’altro è evidente che questo tipo di intervento finisce per alimentare la parte più malata del sogno di queste persone, ossia il far coincidere il miglioramento delle proprie condizioni di vita con la maggior capacità di consumare e di spendere. Agganciare la felicità alle possibilità di cogliere le offerte proposte dal mercato significa avere una visione parziale della persona e dei suoi bisogni. D’altro canto moralizzare le spese dei migranti, limitandone l’esercizio della responsabilità, risulta controproducente proprio sul piano dell’integrazione.



Di fronte a situazioni come questa non esistono soluzioni, ma solo la necessità di ridefinire alcune parole chiave della nostra vita pubblica: far maturare una persona non implica il fatto di renderla consumatrice, caso mai di renderla più “umana” e più responsabile di se stessa. C’è un’ostinazione ideologica nei confronti dei migranti che impedisce di riconoscere nelle grandi masse provenienti dal sud del mondo il volto di uomini che ci chiedono di essere presi in carico ed integrati. Al contempo, scorgo interventi da parte dello Stato che non sembrano essere tesi alla promozione delle persone, quanto a necessità di contenimento delle emergenze, niente di più: il diverso rimane diverso e nessuno lo può sul serio incontrare, a meno che lui non diventi come noi. 



Quello che manca in tutto questo ragionamento è un soggetto sociale, culturale e civile che possa contemperare le esigenze dell’accoglienza con quelle dei diritti e dei doveri dei migranti. Per usare un’espressione felice amata dal Papa, mai come sull’immigrazione è chiaro che per fare davvero un uomo ci sia bisogno di un intero villaggio. I razzisti che insultano o i migranti che pretendono sono, al contrario, il germe di una perversione delle dinamiche relazionali che rischia di travolgere tutto il mondo che fino ad oggi abbiamo conosciuto. E per fermare tutto questo, c’è da scommetterci, questa volta non basterà nemmeno qualche riuscito slogan elettorale.