L’intervista del segretario di Stato vaticano Pietro Parolin a Vatican Insider è la conferma che la Santa Sede e il governo cinese stanno voltando pagina. “Lo spazio dell’accordo si è trovato perché il punto di attenzione reciproco è diverso — spiega Francesco Sisci, che da vent’anni segue da molto vicino l’evolversi delle relazioni tra Pechino e Roma —. La Chiesa vuole prendersi cura della comunità cattolica cinese, divisa da questioni storiche, e vuole il bene dei cinesi. La Cina non solo vuole garantirsi che tale azione non mini la sua stabilità interna. Pechino comincia a capire anche che forse tale apertura con la Santa Sede potrebbe aiutarla a dissipare le tensioni montanti”. Nella sua intervista, Parolin ha sottolineato più volte che la Chiesa nel suo dialogo con la Cina non ha finalità politiche, “non risponde a logiche mondane”, ma “persegue una finalità spirituale: essere e sentirsi pienamente cattolici e, al contempo, autenticamente cinesi”. Molto nette le parole del cardinale sul problema sentito come più spinoso dai cattolici: “in Cina non esistono due Chiese, ma due comunità di fedeli chiamati a compiere un cammino graduale di riconciliazione verso l’unità”. Nondimeno — ha detto ancora Parolin — “la questione della scelta dei vescovi è cruciale”.
Sisci, come commenta le recenti parole del cardinale segretario di Stato?
L’avvicinarsi dell’accordo tra Santa Sede e Cina mette a fuoco tante questioni molto complicate che per decenni sono rimaste confinate agli addetti ai lavori, con l’effetto di apparire quasi esoteriche. E questo anche perché la Chiesa cattolica e la Cina sono due mondi rimasti di fatto separati per millenni. Il dialogo è stato molto difficile. La Cina non capiva davvero cosa fosse la Santa Sede, e la Santa Sede non riusciva a trovare un registro davvero efficace per parlare con il governo cinese.
La comunicazione però non è mai stata interrotta.
No, infatti. Paolo VI scrisse a Mao negli anni 60 e Giovanni Paolo II fu il primo che si impegnò massicciamente a recuperare la divisione fra le due chiese, legittimando negli anni 80 una trentina di vescovi nominati unilateralmente da Pechino.
Oggi secondo lei cos’è cambiato?
Nel concreto lo spazio dell’accordo si è trovato perché il punto di attenzione reciproco è diverso. La Chiesa vuole prendersi cura della comunità cattolica cinese, divisa da questioni storiche, e vuole il bene dei cinesi. La Cina vuole garantirsi che tale azione non mini la sua stabilità interna e che la Chiesa cinese non diventi una quinta colonna straniera in un mondo in cui si addensano tensioni internazionali. Anzi, Pechino comincia a capire che forse l’apertura alla Santa Sede potrebbe aiutare il paese a dissipare le tensioni internazionali montanti.
Parolin ha tenuto in particolar modo a fugare il sospetto di tentazioni politiche da parte della Chiesa. Pechino come ha colto questo messaggio?
In realtà quelle di Roma e di Pechino sono due agende diverse e la grandissima abilità dei diplomatici è stata quella di trovare delle convergenze tra queste agende diverse. In questo, paradossalmente, il marxismo del Partito comunista cinese è stato di aiuto. Il Pc è materialista quindi non può e non vuole impicciarsi di cose religiose.
Questa sarebbe una svolta rispetto al passato?
Sì, perché l’approccio ora è totalmente diverso dal ruolo semidivino dell’imperatore, chiamato appunto “figlio del cielo” e quindi ultimo arbitro in tutto, sfera religiosa compresa. Oggi il governo non ha ambizioni religiose, la Santa Sede non ha agende politiche e quindi in teoria c’è tutto lo spazio per incontrarsi. Certo concretamente ci sono molte zone grigie e qui bisogna venirsi incontro.
Cosa intende dire?
Forse, raccogliendo l’invito del cardinale Parolin nell’intervista di Valente, dovremmo cambiare il lessico. Invece di parlare di compromessi, che implicano sempre uno spiacevole scambio, si dovrebbe parlare di incontro e comprensione fra le due parti. A proposito di comprensione penso sia stata molto significativo un articolo del Global Times che per la prima volta ha dato atto delle difficoltà interne della Santa Sede e delle opposizioni. Questa comprensione cinese credo sia stato un passo importante nel processo di incontro.
Eppure, le persecuzioni, le due Chiese, la questione dei vescovi sono ferite e problemi aperti.
Qualunque soluzione è imperfetta e nulla può restituire o compensare le sofferenze passate. Ma si può operare non per avere il paradiso in terra, ma per vivere meglio e per aiutare concretamente domani e non fra dieci o venti anni i cattolici cinesi e i cinesi in generale. Poi certo il cambiamento da una situazione in cui i cinesi erano lasciati a se stessi a una situazione in cui la Chiesa universale sarà più presente è uno shock, come il freddo che si prova a buttarsi in acqua, ma poi nuotando questo diminuisce.
L’impressione è che l’accordo non sia una questione politica per la Chiesa, ma lo sia eccome per Pechino. E’ così?
Non è una questione solo religiosa, se fosse così non ci sarebbe bisogno di parlare con il governo di Pechino; per la Cina si tratta anche di una questione politica. Qui credo che la Santa Sede sia stata estremamente cauta non cercando agende pro o contro Pechino, ma nello stesso tempo affrontando i problemi reali, vale a dire quelli dei fedeli cinesi.