Morire di Dat. Patrizia Cocco, 49 anni, ha conquistato gli onori della cronaca, suscitando reazioni molto diverse, perché è la prima italiana ad aver sfruttato l’entrata in vigore della legge sulle disposizioni anticipate di trattamento, che riconosce a “ogni persona capace di agire” il diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario indicato dal medico. Ha combattuto per cinque anni la sua battaglia contro la Sla, poi ha detto basta e ha chiesto di staccare la spina. Nel giugno scorso aveva scritto anche a Marco Cappato, dell’Associazione Luca Coscioni, per capire gli scenari che si stavano delineando con l’approvazione della nuova legge. E aveva deciso di attenderne l’approvazione per capire come porre fine alle proprie sofferenze, dopo cinque anni di grandi difficoltà.
La Sclerosi laterale amiotrofica è tutt’altro che rara in Sardegna, dove la sua incidenza è notevolmente superiore rispetto alla media nazionale e dove la presenza di una rete assistenziale e di un sistema di solidarietà diffusa ha portato alla luce moltissimi casi di persone con un commovente coraggio di vivere.
Ma la morte prematura di Patrizia segna un punto di non ritorno nel dibattito che ha accompagnato la legge sulle Dat, proprio per l’esplicito riferimento all’applicazione della nuova legge e all’equivoco riferimento alla sedazione profonda, prevista anche dalla legge sulle cure palliative, ma a determinate condizioni opportunamente precisate anche dal Comitato nazionale di bioetica.
Il ricorso alla sedazione profonda è infatti possibile quando il paziente è in fin di vita e la morte appare prossima e ci sono dei sintomi, come il dolore, per esempio, non controllabili con altri farmaci. La sedazione profonda avviene sotto stretto controllo medico e non rappresenta in nessun caso una sorta di eutanasia attiva. A meno che non se ne stravolga il senso e non si voglia fare della legge sulle Dat l’equivalente italiano di una legge sull’eutanasia passiva (sospensione delle cure e dei trattamenti di qualsiasi tipo), aggravata da un’eutanasia attiva: somministrazione di farmaci che di fatto accelerino la morte.
Patrizia Cocco non aveva lasciato scritte Disposizioni anticipate di trattamento, ma la legge prevede che la volontà del paziente venga presa in considerazione comunque si sia manifestata e qualunque cosa chieda. Il paziente, si legge infatti all’articolo 1, comma 5 della legge, ha “il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato” a trattamenti sanitari e la legge precisa poi che “ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”. Manca il riferimento esplicito al supporto meccanico della respirazione, che si può dedurre dal passaggio successivo, dove si parla di “rinuncia o rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza”, come appunto la respirazione assistita. L’ambigua formulazione del testo è sottolineata dall’affermazione successiva: “Il medico — si legge — è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”.
In altri termini la legge sulle Dat appare a tutti gli effetti una porta aperta all’eutanasia e spiega perché un gruppo di parlamentari — tutti di diverso partito, ma tutti collocati nell’area del centrodestra — abbia detto un “no” convinto a questa legge. L’abbiamo considerata fin dal primo momento una china pericolosa verso la morte anticipata e, disgraziatamente, anche una sorta di grimaldello che scardina nella legge sulle cure palliative il suo profondo orientamento alla vita, all’accompagnamento del paziente, al rispetto per la sua dignità.
Nel caso di Patrizia, i medici hanno preso atto della sua volontà espressa al proprio legale prima dell’entrata in vigore della legge e hanno applicato la legge forzandone il significato, almeno nelle intenzioni dei numerosissimi colleghi che l’hanno votata, convinti che fosse una legge sulla possibilità di esprimere in libertà le proprie scelte, ed escludendo che l’uso della legge avrebbe caratterizzato questa libertà esclusivamente nel senso di chi chiede di anticipare la propria morte. Una legge, quindi, che sancisce il diritto a morire quando e come si vuole, in assoluto contrasto con altre parti del nostro Codice, in cui si proibisce il suicidio assistito e l’omicidio del consenziente.
Ribadisco che a molti di noi questa deriva è apparsa chiarissima fin dall’inizio del dibattito in Commissione e in Aula, ma il pensiero dominante era quello di garantire la libertà del malato qualunque cosa chiedesse e in qualunque modo la chiedesse, offrendo al medico tutte le garanzie possibili sul fatto che non sarebbe stato incriminabile per la sua morte. Una brutta legge che fin dal primo momento ha mostrato la sua potenzialità aggressiva, perché si muove più nel solco della morte che non in quello della cura e della presa in carico. Questo caso ne dà piena ed ampia conferma.
Se, da un lato, a Patrizia Cocco va tutta la nostra solidarietà e l’umana comprensione per una vita diventata così difficile da vivere, dall’altro spaventa molto l’effetto emulazione con cui chiunque in circostanze analoghe potrà chiedere di morire. Vengono meno in questo modo tutte le energie positive che l’amore familiare, che a Patrizia fortunatamente sembra proprio non sia mancato, e la ricerca scientifica rendono sempre più accessibili ai malati. Il nostro sì convinto va alle cure palliative, alla presa in carico della vita del paziente fino alla sua morte, senza incursioni che ne accorcino la durata.