Ciò che è successo a Cisterna di Latina purtroppo è di dominio pubblico: alle 5 di ieri mattina, un uomo, un carabiniere, Luigi Capasso di 44 anni, ha colpito con 3 colpi di arma da fuoco la moglie ora in fin di vita e, dopo un’estenuante giornata di inutili tentativi, ha ucciso nel sonno le figlie suicidandosi subito dopo. Del tutto privi di senso perciò gli sforzi di mediazione che per nove ore familiari e colleghi carabinieri hanno cercato di avviare sperando di trarre in salvo almeno le bambine. 



Purtroppo le avvisaglie del dramma c’erano tutte. La signora Gargiulo, in via di separazione, aveva già subito un’aggressione e le figlie, dice ora l’avvocato che seguiva la donna, erano terrorizzate dal padre e per questo erano seguite dai servizi sociali. Un uomo disturbato che, oltretutto, la moglie aveva cercato di tutelare fin troppo mossa, certamente, dall’amore: denunciarlo infatti avrebbe significato privarlo del lavoro. Forse la signora era consapevole dei problemi mentali di quest’uomo ma era anche consapevole che togliergli il lavoro avrebbe significato farlo esplodere, così come togliere alle figlie l’apporto economico del padre, fondamentale per assicurare loro un futuro normale. 



Antonietta, così si chiama la moglie, è all’ospedale gravissima e tu, quando lo scopri, non sai se pregare che guarisca o che nostro Signore la prenda con sé: come potrebbe infatti rialzarsi dalle ferite sapendo l’infinita tragedia che l’ha colpita? I numerosissimi commenti online sotto la notizia sono deliranti: chi dice di togliere a tutti il porto d’armi, dimenticando che l’uomo era un carabiniere che ha ucciso con la pistola d’ordinanza; c’è chi parla della tragedia della separazione, fino ad arrivare a incolpare i colleghi carabinieri che, come nei film, avrebbero dovuto sparare a Luigi Capasso che si intravvedeva ogni tanto tra i vetri dell’appartamento dove era asserragliato.



Questi commenti sono l’eco del delirio, lucido, programmato, che ha devastato l’ex carabiniere. Verrebbe da parlare di delirio d’onnipotenza, dell’incapacità di accettare il “no” più che legittimo di Antonietta, di reagire con normalità a un evento doloroso e traumatico come quello di una separazione. Parole inutili, parole superflue come pare superflua ogni parola.

Io, come uomo e come prete, non riesco adesso a invocare il perdono, a dire parole di pace e di misericordia. L’unica parola è la preghiera silenziosa, quella che serve per accompagnare le bimbe che sono in Cielo e la loro mamma, e per lei — per la mamma — non so davvero cosa chiedere. Voglio pregare per i parenti e per gli amici di Antonietta. Nel caso sopravvivesse, statele vicino, datele speranza. Perché la speranza soprattutto non va d’accordo con la solitudine: per sperare bisogna essere almeno in due, perché quando ancora non si vede niente, gli occhi per vedere devono essere almeno quattro. La speranza ha bisogno di due cuori per dirsi che ce la si fa. La speranza ha bisogno di quattro mani per apparecchiare qualcosa a tavola nell’attesa che il futuro sia pronto.

Non voglio fare poesia davanti ad una tragedia immane, ma dire che chi starà vicino ad Antonietta dovrà aiutarla a non essere sola. Nessun dolore si può portare da soli e ogni dolore si può portare se si è almeno in due. Finché sfianchiamo gli amici al telefono di notte, finché blocchiamo la fila al supermercato perché ci sfoghiamo con la cassiera, finché litighiamo per un nonnulla col nostro meccanico, la speranza è lì con noi. Da vivere almeno in due. La tragedia è quando ci si chiude e non si parla più con nessuno. Allora è quando si decide di uccidere se stessi e gli altri.