La campanella ha suonato, è il via libera per gli studenti del Liceo di Rapallo, la mattinata scolastica è finita, come sempre l’unico pensiero è stato per tutto il tempo questo: uscire di qui, tornare a casa. In pochi minuti dozzine di loro, i pendolari con destinazione le tante cittadine appoggiate in riva al Golfo del Tigullio, si ritrovano alla stazione per prendere il treno. Ci sono anche io lì in mezzo, 16 anni fra pochi mesi. Tra i pendolari anche alcuni professori. Mentre mi accendo la sigaretta agognata di nascosto dopo cinque ore di scuola, una di loro con cui ho un rapporto “quasi” amichevole, cosa rara tra uno studente e un’insegnante allora come oggi, con la faccia che denota paura forte, mi si avvicina sussurrando: “Hanno rapito Aldo Moro!”. 



Resto muto, non ho capito bene il nome, non mi significa assolutamente nulla. Faccio il furbetto e fingo di adeguarmi al suo terrore mormorando una frase di sconcerto. Lei è quasi in lacrime e abbassando la testa si allontana. Mi guardo in giro per capire se anche altri sono sconvolti, ma di tutti i compagni di scuola nessuno lo è, si parla delle solite cose, ragazze, compiti e cosa fare nel tempo libero. E’ il 16 marzo di 40 anni fa, hanno rapito il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro nel giorno in cui Giulio Andreotti si appresta a presentare alle Camere il nuovo governo.



Arrivo a casa domandomi ancora chi hanno rapito, forse un amico della prof, mangio in fretta come sempre e come sempre esco di casa in fretta a cercare gli amici. Capito a casa di uno di questi che ha dei fratelli maggiori, componenti del locale circolo anarchico. Ce ne sono diversi quel pomeriggio, tutti lì a casa del mio amico. Sono universitari, noi ascoltiamo spesso i loro discorsi, ci mettiamo in tasca una copia di Lotta Continua quando andiamo a scuola per sentirci diversi e superiori alla massa, ma più che altro ci interessa rubare qualche disco dalle loro raccolte. Stanno facendo una festa, sono euforici, uno ci grida: venite di qua, abbiamo comprato la torta! E’ il compleanno di qualcuno? Macché, rispondono, festeggiamo il rapimento di Aldo Moro!



Se qualcuno ancora oggi ha bisogno di sapere se le Brigate Rosse, autori già prima del 1978 di omicidi e atti di terrorismo, fossero o meno sostenute, se non a livello pratico, a livello morale dagli appartenenti ai vari movimenti studenteschi di sinistra, questa è una ottima dimostrazione che sì, lo erano. “Un pesce senza acqua muore, così sarebbe stato anche per noi, ma avevamo un tessuto sociale che ci sosteneva” dirà anni dopo Prospero Gallinari, uno dei componenti del commando che rapì Moro e uccise i suoi cinque agenti di scorta. Operai e studenti: un tessuto sociale che scomparve improvvisamente quel 16 marzo 1978, per la gran parte. Si scriveva sui muri “Né con le Brigate Rosse né con lo Stato”. Che non era poi una frase così ambigua, perché una scelta, come in tutti i casi, nella vita prima o poi si deve fare ed era ovvio cosa avrebbero scelto i giovani degli anni 70 fra Br e Stato. Lo Stato era “Cossiga (scritto con le lettere delle SS naziste) boia”. Lo Stato era il nemico da abbattere e le Br almeno fino al 9 maggio successivo, quando venne ritrovato il cadavere di Moro, quelli che aprivano la strada alla rivoluzione.

Quando il povero corpo dello statista fu ritrovato crivellato di colpi in una R4, cominciò la prima vera dissociazione, prima psicologica, poi pratica. La stagione che si era aperta con il ’68, dieci anni esatti prima, era finita per sempre, nel sangue e nel fallimento.

In quei 55 giorni anche noi più giovani avevamo imparato chi era Aldo Moro. Mai, ricordo, in quel periodo ho provato un solo sentimento di odio, ma solo di pietà nei suoi confronti. Specie dopo aver visto la foto pubblicata dai giornali durante la prigionia con la bandiera delle Br alle spalle: sembrava già morto, sembrava rassegnato al suo destino, sembrava un martire, il capro espiatorio di una follia che aveva conquistato l’Italia. Mi colpivano poi, sempre alla tv, le immagini dei vari uomini di potere, i segretari di partito, i ministri, i capi di polizia e carabinieri: gobbi, rassegnati, comunicavano un senso di sconfitta. C’era paura, in quei giorni, che la guerra civile potesse scoppiare da un momento all’altro, esattamente come un anno prima a Bologna, quando i carri armati avevano occupato le strade.

Ma più di ogni altra cosa in quei 55 giorni mi colpì il messaggio di Paolo VI: se interviene il papa, pensai, vuol dire che siamo alla fine del mondo. “Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse (…) vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro”. Un papa che si mette in ginocchio davanti a dei terroristi: inaudito.

Vinse la morte, ma solo per poco. 40 anni dopo penso spesso e credo di avere qualche ragione, visto come si è sviluppata la politica in Italia, senza fare riferimento ai vari X Files aperti nei decenni sul caso, tipo che dietro il rapimento di Moro c’erano gli americani, che se il presidente della Dc e il segretario del Partito comunista Berlinguer avessero realizzato quel compromesso storico, l’alleanza di governo, che meditavano, oggi forse l’Italia non sarebbe ridotta così male. Ma sono opinioni, pensieri di un ex ragazzino che non sapeva neanche chi era Aldo Moro. 

Ripenso alla stazione di Rapallo in un giorno di sole come solo in Liguria c’è, tanti ragazzi che ridono e scherzano e una prof che piange, adesso la vedo vuota e abbandonata e mi viene in mente una canzone di Guccini: “Carte e vento volan via nella stazione, freddo e luci accesi forse per noi lì/ Ed infine, in breve, la sua situazione uguale quasi a tanti nostri films (…) il triste racconto sembrava assorbito dal buio (…)“. Una canzone di quegli anni lì che diceva benissimo di noi e di quello che eravamo e grazie a Dio, almeno il sottoscritto, non siamo più: “Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno“. I simboli uccidono.