La tragedia si è consumata in una piccola città, Paina di Giussano, in una palazzina ordinata, con i mattoni a vista, nessun degrado sulle piccole strade intorno. La Brianza è in gran parte ancora così. Una normalità decorosa. Non in apparenza, come sarebbe facile dire dopo il sangue versato. E’ proprio così: normalità decorosa nella sostanza. I cognomi sono Turati, Cesana, Pallavicini, nulla di più lombardo.



I fatti (quelli finali). Tre persone: la madre Marina, vedova, 58 anni, la nonna Paola, 88, e il figlio Alessandro, 28, vivevano insieme all’ultimo piano, con un’altra figlia più giovane, di professione hostess. I vicini di casa, non udendo da un giorno alcun rumore, hanno chiamato, nessuna risposta. Carabinieri, e dentro si scopre che il ragazzo ha ucciso nel sonno con un coltello da cucina le donne da cui gli è arrivata la vita, e poi se stesso.  



I vicini dicono di questa famiglia: persone educate, perbene, nessuno screzio. Alcuni da fuori giudicavano Alessandro un tipo strano. Baffoni e barba lunga fino al petto, in soprabito nero fino alle caviglie anche d’estate. Studi di giurisprudenza interrotti, voleva fare il criminologo, ma non aveva redditi. Era stato eletto ai tempi delle scuole superiori rappresentante d’istituto: vuol dire che non era un tipo solitario, isolato, ma tendenzialmente un leader, che ispirava fiducia. Lasciamo perdere l’abbigliamento e l’acconciatura, per favore. I rapper, gli artisti sono assai più strambi, e nessuno pensa siano pericolosi. E allora?



Mancanza di significato, disperazione, tedio. Queste parole appartengono al rituale giornalistico con cui incorniciare i fatti di cui non si sa dare un perché minimamente logico. L’infelicità, il non sentire palpitare il futuro, (non) giustifica un suicidio, al massimo lo interpreta. Ma perché troncare la vita alla madre e alla nonna? Riteneva la loro vita inutile, si sentiva giudicato dal loro sguardo?

Non riesco a immedesimarmi con questi atti disumani, ma con la pena di quel ragazzo e con la preoccupazione delle due donne che lo amavano sì. Si vive. Si ha una pensione, forse qualcosa da parte lasciato dal capo famiglia defunto. Ma ci si ritrova in un cubo di vetro, si soffoca dai troppi pensieri, per un avvenire che pare essere negato: di lavoro, di costruzione di qualcosa che duri, e renda gli istanti preziosi.

La madre e la nonna ti guardano e non sanno capire. Intorno ti vedono un po’ anormale, e magari loro te lo dicono di vestirti meglio, che conciato così lavoro non ne troverai mai.

C’è però un salto incommensurabile tra questa condizione che accomuna tanti — la “decorosa normalità” carica di problema e pene — e questo crimine spaventoso. Una distanza tra il dolore e la violenza che c’entra con una fragilità immensa della mente e una solitudine che non significa non avere gente con cui bere un bicchiere, ma un interlocutore che abbia saputo frantumare un muro interiore in cui barricare la propria infelicità.

Forse uno sguardo, una carezza di parole, uno che s’interessasse davvero non alla posizione sociologica di Alessandro, catalogabile come uno che né studia né lavora, ma proprio a lui con quei baffi e quel nome, quegli occhi chiari, e la voglia di fare il detective; forse una briciola di attenzione gratuita avrebbe aperto uno spazio all’attesa, a qualche cosa di fresco e nuovo. Non lo sappiamo. Eppure queste morti ci invitano a scorgere qualcosa al di là del web, a dedicare i nostri occhi a qualcosa che non sia il nostro ombelico, ma a questi urli silenziosi. Siamo tutti dei poveretti, se ci commuovessimo un po’ di più dell’umanità che noi siamo e che sta intorno a noi, sarebbe un altro mondo. Che la sorella di Alessandro possa trovare questa compagnia capace di affetto.

Un particolare mi colpisce. Questa tragedia è accaduta in via Ada Negri. La grande poetessa pavese, che ci ha regalato versi straordinari sulla “giovinezza”, di quelli che sono ragazzi, ma anche dei vecchi. Oso trascriverne un brano, e vorrei tanto che questa famiglia straziata dalla morte potesse ora sperimentarla oltre la morte:

(Giovinezza) sei rimasta
come un’età che non ha nome:
umana tra le umane miserie, e pur vivente
di Dio soltanto e solo in Lui felice.

O giovinezza senza tempo, o sempre
rinnovata speranza.