Ha chiesto la grazia al presidente della Repubblica uno degli ex manager della ThyssenKrupp condannato per l’incendio che, il 6 dicembre 2007 a Torino, uccise sette operai. Marco Pucci sta scontando dal maggio 2016 la pena di sei anni e tre mesi di carcere. Nel giugno dello scorso anno aveva ottenuto la possibilità di svolgere un lavoro esterno con obbligo di rientro in cella alle 18.30. La notizia è stata confermata anche da uno dei legali che assistono Pucci a Terni.



Pucci ha più volte scritto per spiegare perché a suo avviso non è un assassino, argomentando che — al netto della condanna definitiva — non avrebbe ucciso nessuno. Sostenendo che era solo componente del cda della ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni con deleghe esclusivamente al “commerciale ed al marketing”.



“Noi non concediamo la grazia a nessuno. E nemmeno lo deve fare il presidente Mattarella”. Così Graziella Rodinò, madre di Rosario, uno dei sette operai morti il 6 dicembre 2007 nell’incendio divampato allo stabilimento ThyssenKrupp di Torino. “Ce li hanno ammazzati, non meritano nessun perdono. Semmai lo chiederanno a Dio. Per ora devono stare in galera”.

Bisogna tener conto del fatto che le responsabilità devono essere precisamente definite persona per persona, non per la carica che queste hanno ricoperto, ma per l’atto realmente commesso che ha provocato l’incidente.



Inoltre si deve considerare che in molti altri campi avvengono incidenti relativi al lavoro o al viaggiare dove si utilizzano criteri molto diversificati per condannare.

Tenendo conto di questi fattori non si dovrebbe neppure chiedere ai familiari delle vittime se perdonano. Non è infatti una questione di perdono, ma una questione di applicazione della legge e dei relativi strumenti di variabile applicativa, come la grazia. 

Se ci sono state delle condanne i parenti dovrebbero aver superato il momento della percezione dell’ingiustizia. 

In questo caso rimane aperta la questione dei dirigenti tedeschi che non sono stati estradati dalla Germania. Per questo il linguaggio duro dei parenti delle vittime interrogati sul perdono è comprensibile. Ma sono errate le domande sul perdono nel caso del ricorso di Marco Pucci che chiede la grazia al presidente della Repubblica,. Infatti la risposta dei parenti è “non perdoniamo nessuno”, ovvero non prendono neppure in considerazione le situazioni personali diverse, come, nel caso di Pucci, il fatto che lui non avesse rapporto con l’organizzazione della produzione.

A noi resta da maturare un rapporto diverso con la parola perdono. Questa parola non significa la cancellazione del fatto compiuto, ma l’affidarsi all’amore infinito del Dio cristiano per ogni peccatore. Non lasciamoci inaridire mettendo sullo stesso piano la giustizia terrena con la giustizia divina. Sono proprio i parenti delle vittime che devono aprirsi al perdono verso ogni persona. E’ una grande letizia che può accompagnare il dolore, la letizia di chi guarda alle persone come bisognose di perdono.

La secca contrapposizione di operai e padroni è una fiamma che brucia perché la giustizia terrena non è mai veramente giusta. Già solo la lunghezza delle decisioni dei tribunali inasprisce ogni conflitto. Ci sono tanti casi che si ricordano in questi giorni, memorie di delitti terribili per i quali le condanne sono state anche fin troppo deboli. Davvero abbiamo bisogno di restituire la parola perdono al senso religioso.