Leggo la storia dei tre ragazzi che a Napoli hanno ucciso a bastonate una guardia giurata per rubargli la pistola, e mi vengono i brividi.
Il padre di L. racconta come si può perdere un figlio “senza poter far niente”. Il padre di K. ha gli “occhi di un genitore impotente: ‘Un figlio viene come vuole lui, come le piante, crescono storte o dritte e tu non ci puoi fare niente'”. Settimana scorsa mi sono trovato davanti il papà di un mio alunno “difficile”. Aveva le lacrime agli occhi: “Sono mortificato, mio figlio non è voluto venire (avevamo un appuntamento importante). Non so cosa dire, mia moglie e io siamo due brave persone (non sono disoccupati o avventizi, hanno due buoni lavori, un tenore di vita). Ma non sappiamo più cosa fare”.
“Non sappiamo più cosa fare”: è un ritornello che ho sentito non so quante volte dai genitori dei miei studenti. Come si fa a fare il padre, la madre, oggi, in un mondo che da decenni ha fatto fuori ogni idea di autorità, che predica da tutti i pulpiti che i figli bisogna lasciarli “liberi”? Che se a tuo figlio tiri uno scapaccione al supermercato — mi è successo — tutti ti guardano storto, e ti va bene se nessuno chiama il telefono azzurro o i servizi sociali?
Giorni fa, su Facebook ho visto un’immagine — non riesco a ritrovarla, vado a memoria — che diceva più o meno: “Di che cosa vi lamentate se guardo i rap sul mio smartphone, voi che passate la serata davanti al Grande fratello e all’Isola dei famosi?” C’è da stupirsi, se i genitori — quelli di Scampia come i miei della periferia milanese — non hanno idea di chi siano i loro figli, non sappiano quel che scrivono sui loro social, come si comportano fuori di casa?
Il figlio della guardia giurata assassinata si scaglia contro i genitori dei ragazzi che gli hanno ammazzato il padre: “Per me sono complici degli assassini”. In un certo senso ha ragione: se quei ragazzi sono cresciuti così, è — anche — perché hanno avuto padri e madri così. In un altro senso, però, a me pare che quei poveri genitori siano anche loro vittime. Di chi, di che cosa? Mi viene in mente la drammatica, inutile denuncia di Pasolini: “Io so. Io so chi sono i colpevoli. Anche se non ho le prove”. Chi sono i veri colpevoli del drammatico vuoto educativo in cui crescono i nostri ragazzi, se non i cattivi maestri che da decenni — da un secolo, se già Péguy definiva i padri “Questi avventurieri del mondo moderno” — fanno di tutto per distruggere ogni principio di autorità, fanno di tutto perché i figli non abbiano più un padre ma siano “liberi” — ossia finiscano per seguire docilmente ogni moda, ogni ideologia imposta dal potere?
Ma io non sono Pasolini. Non solo perché non ho neanche un’unghia della sua lucidità, della sua forza. Ma perché non posso, non voglio limitarmi alla denuncia. A quel padre ho detto: io ci sono. Per suo figlio, con suo figlio stiamo provando a cercare qualcosa di buono. Con le mamme di un paio di altri ragazzotti ci siamo dati appuntamento per sabato prossimo, andremo — pioggia permettendo — con loro e i loro figli e qualche compagno a dare una mano a giovani amici a zappare la loro terra.
“Ci vuole un villaggio, per educare un figlio”, ripete instancabilmente papa Francesco. Proviamo, come siamo capaci, a costruire, a ricostruire una compagnia, un tessuto in cui ci si possa sostenere, e in cui i ragazzi trovino qualcosa di bello. Per me, non vedo altra sfida.