Momento difficile per Trony, che negli ultimi giorni – in seguito al fallimento di Dps group, uno dei soci di Grossisti Riuniti Elettrodomestici (GRE) che dal 1997 detiene la proprietà della catena di elettrodomestici – ha chiuso 43 punti vendita. Dps Group ha annunciato il fallimento venerdì scorso alle ore 18, ma certamente discutibili sono state le modalità con cui ai dipendenti è stato comunicata la sospensione delle attività. Come riferito da La Repubblica, i lavoratori hanno ricevuto solo un messaggio WhatsApp che avvisava della chiusura del posto di lavoro. Neanche le segreterie delle organizzazioni sindacali nazionali di categoria sono state avvisate per tempo. La situazione era critica ormai da diversi mesi: molti dipendenti, infatti, non percepivano lo stipendio integrale già dalla fine dello scorso anno. A rischio sono circa 500 posti di lavoro, ma la chiusura dei punti vendita Trony ha causato diversi disagi anche ai consumatori. Paradossali i casi citati da Repubblica di giovani coppie che temono per le loro liste di nozze. Dubbi anche sul destino della merce già ordinata. 



LE TAPPE DELLA VICENDA

Ma come si è arrivata alla chiusura di diversi punti vendita Trony? In realtà Dps Group era in crisi da tempo. Lo scorso mese di giugno la proprietà, appartenente ai Piccinno, aveva adottato lo strumento della cessione di ramo d’azienda per passare 40 punti vendita alla società Vertex, sempre facente capo alla famiglia. Vertex però aveva retrocesso i negozi in due momenti, a gennaio (16) e la scorsa settimana (23); fuori erano rimasti i punti vendita di Taranto e Mestre. Dps a questo punto aveva chiesto il concordato preventivo e il 25 gennaio il tribunale aveva provveduto alla nomina di un commissario giudiziale, Alfredo Haupt. Da qui si arriva all’annuncio del fallimento di venerdì, con Haupt rimasto nelle vesti di curatore fallimentare e Vertex che dal canto suo ha inoltrato domanda di concordato preventivo il 9 marzo. Vani gli sforzi dei sindacati, attivatisi per cercare possibili soluzioni alternative alla chiusura: nel 2015, ad esempio, erano stati firmati i contratti di solidarietà difensivi con una riduzione media dell’orario di lavoro del 20%. Non è bastato.

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