Ieri, nell’omelia della domenica delle Palme, Papa Francesco legge la condanna di Gesù da parte del sinedrio con le chiavi dell’intrigo. “La calunnia è la voce di chi manipola la realtà e crea una versione a proprio vantaggio e non ha problemi a incastrare gli altri”. A cinque giorni dalle vicende che hanno portato alle dimissioni del Prefetto della Comunicazione, non c’è bisogno di essere dietrologi o “esperti” per vedere queste parole del Pontefice come un’aperta difesa di monsignor Dario Edoardo Viganò e cioè dell’uomo che Francesco aveva fortemente voluto a capo del grande lavoro di riforma dei sistema comunicativo della Santa Sede.



Era già capitato al vescovo di Roma di utilizzare un’occasione ufficiale per dire chiaro e forte il proprio pensiero, pur non facendo nomi, a proposito di vicende che lo avevano ferito. L’ultima volta era stato a dicembre scorso quando, a proposito di Libero Milone, primo Revisore generale del Vaticano, parlò delle “persone che vengono selezionate accuratamente per dare maggior vigore al corpo e alla riforma ma, non comprendendo l’elevatezza della loro responsabilità, si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria e, quando vengono delicatamente allontanate, si autodichiarano erroneamente ‘martiri del sistema’, del ‘Papa non informato’, della ‘vecchia guardia’, invece di recitare il mea culpa”. 



Non confondiamoci. Le dimissioni di Milone furono di segno opposto rispetto a quelle di Viganò. Queste ultime sono state accolte dal Papa “a fatica” — si parla di due o tre incontri necessari a Viganò per convincere Bergoglio ad accettarle — tanto da inventare un modo per far rientrare dalla finestra colui che era uscito dalla porta. Mi riferisco all’inconsueta nomina di Viganò ad “assessore” per il Dicastero della comunicazione con l’esplicito mandato “di poter dare il suo contributo umano e professionale”. Non quindi il classico “promoveatur ut amoveatur” ma piuttosto un “amoveatur ut confirmatur” come ha attentamente commentato qualche addetto ai lavori. Ieri, pur senza farne il nome, Papa Francesco ha difeso il proprio uomo in modo molto netto paragonando implicitamente le dimissioni a cui è stato costretto un uomo innocente al “Crocifiggilo” che ha colpito Cristo. “Crocifiggilo! Non è un grido spontaneo — ricorda il Papa — ma il grido montato, costruito, che si forma con il disprezzo, con la calunnia, col provocare testimonianze false. È la voce di chi manipola la realtà e crea una versione a proprio vantaggio e non ha problemi a ‘incastrare’ altri per cavarsela. Il grido di chi non ha scrupoli a cercare i mezzi per rafforzare se stesso e mettere a tacere le voci dissonanti. È il grido che nasce dal truccare la realtà e dipingerla in maniera tale che finisca per sfigurare il volto di Gesù e lo faccia diventare un malfattore. È la voce di chi vuole difendere la propria posizione screditando specialmente chi non può difendersi. È il grido fabbricato dagli intrighi dell’autosufficienza, dell’orgoglio e della superbia che proclama senza problemi: “Crocifiggilo, crocifiggilo!”.



Non sarebbe giusto però confinare le parole del Papa alla vicenda Viganò. Nel “Crocifiggilo!” che ha condannato Cristo c’è la violenza senza pensiero, l’aggressività senza pietà. E dietro quell’urlo c’è qualcosa di orribilmente universale: la corruzione di chi insinua la violenza nella folla con le armi della maldicenza, della diffamazione, dell’umiliazione. Come se Gesù non fosse un uomo-Dio che vuole salvare, ma un nemico le cui parole e gesta siano una minaccia. E così — come accade anche a noi oggi troppo spesso — la folla decide in base al sentito dire e non guardando l’uomo che verrà inchiodato da quel “Crocifiggilo”. Nelle parole di Francesco non ci sono solo le paludi della Santa Sede: c’è, soprattutto, un respiro universale. Un forte invito a spezzare il circolo dell’autoreferenzialità e del potere che si autocelebra, costi quel che costi. C’è la condanna della parola usata come arma: certo un monito ai social network, alla comunicazione e alla politica, ma soprattutto un avvertimento rivolto alle nostre personali relazioni quotidiane quando, con le parole, spesso inchiodiamo vite e persone. Papa Francesco sicuramente vuole riformare la Chiesa e la Curia ma a partire dai cuori delle persone e dalla reale comprensione di Cristo: col suo volto, la sua vita, il suo corpo, il suo cuore.

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