Par iér. Invece proprio oggi sono già cinque anni che il geniale medico artista se n’è andato. Era il venerdì santo del 2013. Andato… neanche tanto lontano. Enzo Jannacci è rimasto di casa tra noi, lì nel famedio del Cimitero Monumentale con attorno una bella combriccola di altri geniacci della milanesità: l’amico Giorgio Gaber, il maestro Dario Fo, la poetessa Alda Merini, l’attore Franco Parenti; c’è pure Maspes, geniaccio del surplace nel ciclismo su pista. A noi tuttavia piace pensarlo, come lo si vede nella foto, sul tècc del dòmm, col suo lungo svolazzante soprabitone colore della gabardine, gli occhi e il respiro nel cielo sopra Milano, le braccia spalancate come un abbraccio, o una croce, o un eccomi, alla sua maniera, però: ohé sont chì, òccio che rivi. E insèmma a lui la vasta schiera dei suoi amis disgraziaa: il barbone dell’idroscalo in scarp de tennis, il Gigi Lamera che andava col treno e non più in bici a lavorare a Baggio, per far colpo sull’operaia snob che gli piaceva. E poi il Rino, incoerente anche come panettiere. E quello che per un basìn chiesto in balera sono arrivati anche i carabinieri. E il ladro di polli che ruba un’aquila imperiale scambiata per tacchino e lo condannano per vilipendio dello Stato (fascista). E quello che spera invano di avere un prestito dell’ex commilitone, che nemmeno lo degna di un vers, ciapato com’è a fa l’amor. E quello che cercava la ragazza a Rogoredo per riavere i suoi diecimila. E il soldato Nencini, di stanza a Alessandria, schedato terrone. E quell’altro modesto operaio moglie e figli, che per arrivare in piazza del duomo ghe voeuren du tram. E una fila d’altri ancora che non basterebbe la guida del telefono. C’è anche il cane con i capelli, che se chiedeva tre sigarette nessuno gli rispondeva. Più emarginato di così…
Ecco, sul tecc del domm, nel cuore di Milano tra terra e cielo, Enzo porta i periferici, i decentrati, gli emarginati, i diversi, quelli che non contano, quelli che lassa stà che l’è roba de barbon. Li porta a uno a uno, come persone concrete, non come categoria sociologica. Con le loro storie, le loro vite, le loro miserie, il loro cuore, la loro dignità. La loro umanità. Il barbone è on mè amis preciso, non c’entra niente con la retorica esistenzialista del clochard generalizzato. Men che meno è una macchietta da avanspettacolo.
Ecco, Jannacci cantore dell’umano. Perché dalla periferie geografiche ed esistenziali si vede meglio l’umano che la società liquida annega e confonde e il turbocapitalismo spappola, fornendoci anche mille illusioni per farci girare la testa da un’altra parte. Enzo ci ha insegnato che i dis-graziati sono proprio quelli che hanno bisogno, etimologicamente, di grazia, della grazia di Dio: lo ribadì nel concerto al Meeting di Rimini, specificando che non lo asseriva per raccattare facili consensi. Non c’è da dubitare: Jannacci non ha mai detto nulla per compiacere. Cosa che ha pagato con censure Rai e discografiche in varie fasi.
Cinque anni fa, il sabato santo in coda paziente sotto la pioggia per la visita alla camera ardente; e il martedì dopo Pasqua ai commoventi funerali nella basilica di Sant’Ambrogio gremitissima, si vide bene quante persone – amici, colleghi del suo variegato mondo dello spettacolo, gente qualunque – si fosse riconosciuta così intimamente nell’umanità claudicante ma schietta dei suoi personaggi da trovarsi straordinariamente affezionata a lui. Quegli amici e quella gente in questi cinque anni non l’hanno dimenticato, ma in tanti modi hanno cercato di tener viva la sua voce. Ci riconosciamo perfettamente ancora. Non ci tocca essere tante volte saltimbanchi che all’interruttore della luce obbediranno? Gente che senza la base gli è proibito cantare e con la base gli è proibito sbagliare? Gente che ha bisogno perché magari ha sbagliato o ha avuto un rovescio e invece di una mano si sente rispondere ma se me lo dicevi prima. Anche oggi un muratore muore, come quello che è caduto dall’impalcatura sulla strada contromano disturbando il sabato. L’ideale di giustizia è contrastato, e persino l’alfabeto muore, la base umana della comunicazione. Per tanti giovani l’avvenire resta un buco nero in fondo al tram. Vivono in contesti dove i fiori hanno paura e il sole è avvelenato. Tanti si trovano a dirsi sont s’cioppà. Tanti appariamo tutti liberi di fuori ma di dentro son dolori. Siamo come un uomo a metà,”in bilico – ha spiegato Jannacci stesso una volta – tra il pensiero di una nuova automobile e quei valori figli della caritas, che riguardano tutti, non solo i cristiani”.
Gli uomini e le donne delle storie di Jannacci pulsano di questo livello dell’umano, quello profondo, dove c’è una dignità che non dipende dal riconoscimento sociale. Dove c’è il cuore urgente.
La dignità del partigiano condannato alla fucilazione, sublime nell’accettare la sigaretta dall’ufficiale nazista perché quello fa la faccia offesa. Del barbone che, sì, el pareva nissùn alle sguardate della gente borghese, ma aveva i oeucc de bon, e poi era qualcuno perché anche lui nel suo piccolo – roba minima – aveva avuto il suo grande amore. Dell’ipovedente membro della banda dell’Ortica, che se la prende coi compagni perché lui è un palo, minga on pirla. Di Vincenzina, giovanissima moglie dell’operaio sindacalizzato che sta davanti alla fabbrica, col suo foulard fuori moda, e finisce per voler bene alla fabbrica anche se dentro sa che c’è la fatica, ma è la stessa paziente fatica del suo quotidiano.
La vita ha la sua tristezza e le sue ferite. Non è da censurare la ferita. Maria, tu tieni la tua ferita stretta vicino al cuore. E la tristezza? E’ lì a due passi e ti accarezza e ride lei, come in Io e te; e la tristezza del musicista mostra di essere buona, ed allora è lei che suona e lui si guarda in giro e gli vien voglia di cantar. La tristezza è quella che il potere non vorrebbe nemmeno vedere, “e noi vilan sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale…”. Infatti sulla tristezza il potere non ha potere perché essa è nostalgia di qualcosa che il potere non può darci. Qualcosa che il cuore urgente desidera irresistibilmente. Come quello di Giovanni telegrafista, che batte in sincrono con il piripirippippiri dell’apparecchio. Come il nostro, via: che ci fa unire alla bolgia umana sul tecc del domm con Enzo, fra questa città (che da piccolo l’hoo vista dal tram tacaa dré a on respingent, come in giostra a volà), e il cielo. Il cielo sopra Milano dove si protendono due braccia aperte come una croce, un abbraccio, un’esplosione e dove affonda il sorriso di due oeucc de bon.