C’è una vicenda, approdata recentemente anche in tv dopo avere coinvolto migliaia di utenti di YouTube, che ha come protagonista un bambino di nove anni, Gabriele, conosciuto dal pubblico con lo pseudonimo di Lele Joker. Il piccolo, morto ieri per un neuroblastoma che in tanti avevano imparato a conoscere, si è affermato grazie al desiderio di diventare uno youtuber, postando diversi video sui suoi sogni e su come la vita debba essere guardata. Aveva chiesto aiuto alla tv per diventare una webstar, puntando a riunire circa diecimila follower che — proprio grazie al piccolo schermo — si sono poi invece trasformati in 115mila. La storia, dai toni agrodolci, racconta di come tutti noi per vivere un dolore abbiamo bisogno anzitutto di essere importanti per qualcuno. La sofferenza infatti ci instilla il dubbio che la nostra esistenza alla fine non sia di serie A, non meriti di essere vissuta. Lele Joker ha desiderato ardentemente essere significativo per gli altri e ha espresso questo bisogno con il suo linguaggio, con le modalità che attorno a lui percepiva come le più adeguate a rispondere a questa “fame di sguardi” che pensava potessero restituirgli valore e dignità.
Fare i moralizzatori non serve e fa dimenticare quante cose ciascuno persegue con tenacia per avere un po’ di quel bene che cerca: Gabriele ha scelto la popolarità del web e, mentre vorremmo indignarci per tanto dolore usato in questo modo, non possiamo che arrenderci al fatto che in quella scelta c’è un po’ di tante nostre scelte, ancora più avventate. Certo stupisce come il dolore esposto, il dolore mostrato, attiri l’attenzione degli altri: forse dipende dall’incapacità di guardare il nostro dolore e dalla possibilità che il dolore altrui almeno ci consenta di entrare in contatto con un riflesso di ciò che c’è in noi e che ci tormenta. Resta il fatto che il dolore fa audience e che di fronte alla sofferenza siamo portati a fermarci, ad ascoltare di più.
Eppure, al fondo di tutto, ciò che fa impressione è la solitudine che pervade questo racconto: la solitudine di un bimbo, la solitudine di una famiglia, la solitudine di un pubblico. È assurdo come ai nostri giorni anche gli incontri più belli sembrino segnati dal fatto che ad incontrarsi siano i vuoti, le paure e le solitudini delle persone. Quello di cui si sente nostalgia in questa vicenda è quindi un incontro vero, un avvenimento reale che liberi tutti dall’affettata compassione e dall’ostentata pietà, sentimenti che sembrano nobili e zuccherosi, ma che si consumano presto, lasciando l’io in balia del deserto che abita poco o tanto il cuore di tutti.
C’è dunque bisogno di qualcosa che vinca il deserto, di un pane che sazi le lacrime e che abbracci il cuore. Non un pane di consolazione, ma un pane che restituisca vita e rimetta in moto in desiderio. Un pane del Cielo, capace di farci rinascere e di trasformarci in uomini nuovi. Certi che non è un tumore che uccide la vita, ma la percezione di una fame che non possa essere saziata. È questo il dono di Lele Joker: restituire a chi ascolta la sua storia l’esigenza che quel pane esista, che quel pane possa esserci donato oggi, ora. Alla mensa di questo misterioso, eppure atteso, giovedì santo.