Le cronache di questi giorni ci hanno consegnato diverse storie di indigenza e di povertà. Volti e sofferenze, nel cuore ricco e operoso del Nord Italia.
A Padova, per esempio, una donna di 75 anni, è svenuta al supermercato; quando si è riavuta, ha raccontato di non avere i soldi per comprarsi il cibo né per scaldare la casa.
A Milano, ai microfoni di “Mattino Cinque”, un 55enne ha raccontato la sua storia di senzatetto, costretto a dormire in una tenda a pochi metri dal Duomo dopo aver perso il lavoro, la casa e la speranza di vita. Ripensando al suo passato ha ricordato un particolare che dà da pensare: “Prima facevo il gommista. Eravamo tre italiani, ma l’azienda ci ha licenziato uno per uno e ha preso degli stranieri. Noi prendevamo 14 euro all’ora, loro invece ne prendono 6”.
Colpa della globalizzazione, si dirà. Ormai la regola, quasi automatica, è questa: c’è sempre qualcuno disposto a fare il tuo lavoro a prezzi (e costi) più bassi. Da 14 a 6 euro, e non si sa se con tanto di contributi versati.
Che non siano tanti, è facile da capire. Un po’ più complicato stabilire “quanto” sia la giusta mercede per un lavoro che richiede fatica, in cui ci si sporca le mani, si compiono operazioni che possono essere importanti e decisive per la sicurezza di altre persone.
Già, quanto può valere un’ora del nostro lavoro? A determinarlo sono tante variabili, la mansione svolta, le regole del mercato, le dinamiche della domanda e dell’offerta, lo stato di salute dell’impresa… C’è anche chi ha proposto un metodo di calcolo, una formula: partite da ciò che guadagnate in un anno, dividete l’importo per il numero di giorni lavorativi (più o meno 220) e poi ancora per 8, cioè il numero medio di ore giornaliere. A quel punto moltiplicate il risultato per 2, perché solo la metà delle vostre ore sono al massimo della produttività. Il risultato? È il riferimento del proprio valore orario (tanto per dare un’idea, se la vostra fascia di reddito annuo è pari a 15.000 euro, un’ora del vostro lavoro vale 17 euro e spiccioli). Un metodo semplicistico ed empirico? Può darsi, ma lasciamo l’ardua sentenza agli esperti (per inciso, il calcolo suddetto è stato elaborato da un esperto di consulenza e formazione).
Torniamo, invece, alla “giusta mercede”. I temi della dignità di chi lavora e della giustizia sociale stanno molto a cuore alla Chiesa, tanto da aver mosso a riflessioni, profonde e acute, diversi pontefici, da Leone XIII a Giovanni XXIII, da san Giovanni Paolo II a Benedetto XVI e oggi a Francesco, che più volte ha denunciato la cultura dello “scarto”. Quante volte, con la giustificazione della globalizzazione, piegandosi all’idea distorta che “qualcuno che fa il tuo lavoro a costi più bassi lo si trova sempre…”, si rischia di scivolare nello sfruttamento, nella tentazione di “arricchirsi” sulle spalle dell’altro, di imporre contratti ingiusti? Il catechismo di san Pio X ricorda che defraudare della giusta mercede chi lavora è uno dei quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio…