“È estremamente probabile che siamo andati molto vicino alla realizzazione di un attentato del terrorismo islamico in Italia. Ma i fatti recenti dimostrano che l’azione di contrasto resta efficace. Anche l’allarme del ministro Minniti ricorda a tutti che l’asticella dell’allerta va tenuto sempre alta. E comunque la chiusura delle frontiere non è mai la soluzione migliore: chiusura non vuol dire sicurezza”. E’ il giudizio di Vincenzo Scotti, già ministro (“bravissimo”, copyright Giulio Andreotti) dell’Interno nel 1990-’92.
L’altro ieri, a Torino, è stato arrestato l’italo-marocchino Ehlmadi Halili. Secondo gli investigatori, in una scala da 1 a 10, il suo livello di pericolosità era pari a 9. Significa che siamo stati molto vicini a un attentato a firma Isis nel nostro Paese?
È estremamente probabile. Quando le forze dell’ordine forniscono questa indicazione significa, da un lato, che il pericolo esiste, anche se non si sa mai come e quando un possibile attentato possa verificarsi; dall’altro, invece, dimostra quanto la nostra organizzazione di controllo e di contrasto al terrorismo, fatta di attività di intelligence e di presidio delle forze di polizia, possa contare su un rodaggio e un’efficacia consolidati. Poi, mai dimenticarsi che il rischio di gesti inconsulti è sempre in agguato.
Ieri invece, nel Lazio, è stata sgominata la rete che aveva aiutato il tunisino Amri, autore dell’attentato al mercatino di Berlino e poi ucciso in Lombardia da una pattuglia nel 2016. Due azioni riuscite di anti-terrorismo così ravvicinate sono forse un messaggio che l’Italia ha voluto lanciare ai militanti Isis, cioè “sappiate che noi non abbiamo abbassato la guardia”?
Sì, certo. Queste azioni hanno sempre un forte valore simbolico e influenzano i comportamenti. In pratica, si è fatto sapere che la rete che aveva protetto e aiutato Amri era conosciuta, è stata controllata e alla fine scoperta e sgominata. È un’operazione che richiede un lavoro lungo, tanta pazienza, nervi saldi e la capacità di portare a termine operazioni lampo.
Il ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha dichiarato: “Minaccia jihad mai così forte in Italia”. Come interpreta questo allarme?
Se un ministro dell’Interno dice queste cose, innanzitutto ha già parlato con le forze di sicurezza per allertarle e attivarle. In secondo luogo, dice queste cose perché in frangenti simili si percepisce che l’opinione pubblica possa prendere alla leggera il problema. In presenza di eventi tragici il livello di consapevolezza è sempre molto alto, poi tutto tende a evaporare. Quindi l’allarme va colto, deve trovare un’audience adeguata, non un atteggiamento di non riconoscimento dell’autorevolezza della fonte, il ministero dell’Interno, che lancia il monito. A me è capitata una cosa simile nel 1991, dopo l’uccisione di Salvo Lima in Sicilia. Alzai l’allerta, cioè portai l’asticella dell’attenzione molto in alto, eppure trovai una certa diffidenza: qualcuno parlò di esagerazione, qualcun altro di falso allarme. Poi, invece, vennero le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Ecco, la cultura della sicurezza non deve certo terrorizzare l’opinione pubblica, ma neppure tollerare atteggiamenti di assuefazione.
Frontex ha lanciato l’allarme sugli “sbarchi fantasma”. In Italia si è sempre detto di non equiparare gli immigrati ai terroristi. Un principio che va rivisto?
L’eguaglianza è quando, in tutte le situazioni, A è uguale a B. Nel caso degli sbarchi non parlerei di equazione, direi piuttosto che in certe condizioni la probabilità è molto alta. E allora la risposta è una sola: rafforzare l’intelligence.
Qualcuno ha già invocato la chiusura delle frontiere…
No, la chiusura delle frontiere non è una risposta politica valida. Chiusura non equivale a sicurezza. Piuttosto si tratta di tenere ancor più sotto controllo i punti di passaggio e di non farsi trovare impreparati in caso di eventi che possono essere imprevedibili. Servono vigilanza costante e rapidità d’intervento.
Non siamo più un Paese di transito per i terroristi?
Noi siamo stati, e siamo tuttora, più cose diverse: destinatari, luogo di organizzazione di base, Paese di transito. Noi dobbiamo essere pronti a fronteggiare diverse situazioni, che possono tra loro coesistere.
Dall’imam di Foggia alla rete Isis di Latina, la preoccupa il fatto che potenziali attentatori o reclutatori di potenziali terroristi si insedino in città medio-piccole, dove la presenza delle forze dell’ordine è meno massiccia?
Il contrasto al terrorismo in Italia trova la sua forza ed efficacia proprio nella capillare distribuzione sul territorio delle forze di polizia, a partire dai carabinieri. I carabinieri svolgono un lavoro d’intelligence semplificato, ma molto utile. E nelle città medio-piccole, più che nelle metropoli, è più difficile riuscire a nascondersi. Le caserme dei carabinieri sono presidi diffusi e importanti. Io non li smantellerei mai.
Dopo le sconfitte sul campo in Siria e Iraq c’è chi parla di un Isis 2.0, più decentrato e multiforme. Questo ci costringe a cambiare le nostre strategie difensive?
L’azione di contrasto non cambia. Ci sono semmai nuove variabili da considerare, ma sempre all’interno di una strategia, di un modello operativo già rodato. Il sistema italiano, poi, ha dimostrato in molte occasioni di essere capace di adeguarsi velocemente ai mutamenti.
(Marco Biscella)