Non si fa. Proprio non si fa. Non si manda a scuola un figlio con una telecamera miniaturizzata cucita nel giubbino per riprendere quello che accade in classe, come ha raccontato ieri La Stampa. Non è leale, e forse nemmeno legale.
Epperò. Epperò, come diceva il grande Chesterton, “un errore è una verità impazzita”. Come? Che cosa può esserci di vero in un atto così sleale? So che entro in un campo minato, so che solleverò un vespaio, ma provo a dire la mia.
I miei amici sanno che, da un sacco di tempo, dico tra il serio e il faceto — più serio che faceto — che l’unica vera riforma della scuola sarebbe una webcam in ogni aula. Come? Una webcam in ogni aula?
Io, nel mio piccolo, ho sempre fatto lezione con la porta aperta. Non ho mai avuto niente da nascondere. Chiunque avesse voluto poteva affacciarsi sulla porta della mia aula e vedere e sentire quel che stavo facendo e dicendo. Non ho — non ho mai avuto — niente da nascondere. So che con questo sfido uno dei tabù più potenti della scuola, per lo meno italiana, dove ogni insegnante — non tutti, per carità, ma la grande maggioranza sì — entra in classe, chiude la porta, e da quel momento è signore assoluto della situazione. Non deve rendere conto a nessuno di quello che fa. È giusto, questo? Io dico di no. La scuola è pubblica (anche quella cosiddetta privata, che privata non è, e forse non è un caso che in tante scuole “private” ci siano ampie finestre che permettono di vedere che cosa succede nelle classi; che in alcune ci siano dei sistemi di microfonia — i docenti lo sanno — che permettono al preside di ascoltare quel che nelle aule si dice): non deve essere pubblico, cioè visibile a tutti, quello che faccio?
Conosco bene le obiezioni: ma allora i genitori verrebbero a contestare, pretenderebbero di dire la loro su quel che succede in classe… Sì. Dov’è il problema? Ho qualcosa da nascondere? Faccio qualcosa in classe che non voglio che altri vedano? Per me sarebbe una sfida interessantissima: dovrei rendere ragione a tutti di quello che faccio. Che cosa potrei chiedere di meglio? Si svilupperebbe un dibattito su come insegno, sull’efficacia di quel che faccio. Magari — anzi, certamente — porterei a casa dei suggerimenti preziosi, qualcuno mi direbbe “ma lì avresti potuto fare così, dire cosà”…
Tutti noi insegnanti dovremmo rendere ragione delle nostre azioni. Tutti i ragazzi saprebbero — risvolto interessantissimo — che chiunque può vedere quel che fanno in classe. I genitori — ve l’immaginate? — vedrebbero come si comportano i loro figli lontano da loro…
Ma come? — mi si dice — Allora tu vuoi introdurre il Grande Fratello (quello vero, quello orwelliano, quello che ti spia ovunque)? Attenzione: il Grande Fratello di Orwell è demoniaco perché entra in casa tua, perché ti spia dove nessuno deve entrare. Ma qui stiamo parlando di un luogo pubblico. Di funzionari pubblici, stipendiati con denaro pubblico: non dovrebbero essere fieri di rendere conto a tutti di come svolgono la loro opera pubblica? Socrate — si parva licet… — insegnava nelle piazze, mica al riparo di un’aula…
Certo, vedo bene anche il rovescio della medaglia: i ragazzi non avrebbero più uno spazio in cui sfuggire allo sguardo occhiuto di genitori sempre più apprensivi, insegnanti fuori dagli schemi rischierebbero di essere messi alla berlina dalla mentalità diffusa (Socrate ha fatto la fine che ha fatto…). Epperò. Epperò recentemente ho sentito il direttore di una scuola spagnola raccontare che nella loro nuova sede le pareti della aule sono di vetro: chiunque passi può vedere quel che succede. Epperò in India recentemente è stato messo in atto un programma di istruzione basato proprio sull’uso sistematico delle telecamere, e sembra che stia riscuotendo un grande successo.
“Un errore è una verità impazzita”, dice il grande Chesterton. Filmare lezioni all’insaputa delle insegnanti non è leale, e forse nemmeno legale. Ma se fosse un patto esplicito, e almeno in certe condizioni tutti vedessero quello che succede in aula, e insieme lo giudicassimo?