Caro direttore,
stamattina, salendo sul pullman destinato a portare alcune classi del nostro liceo classico all’imbarco per la Grecia, una ventina di studenti dell’ultimo anno mi attendevano con ansia con un sorriso a trentadue denti per dirmi che loro le elezioni le avevano vinte. Votavano per la prima volta e avevano vinto: erano contenti, lieti. Quasi come fosse arrivata la primavera.
Vittima delle mille analisi che avevo ascoltato in questi mesi, delle preoccupazioni per la tenuta del sistema, per l’ondata revanscista e xenofoba che ha caratterizzato parte della campagna elettorale, mi ero dimenticato che cosa volesse dire stare di fronte al dato, al fatto che quel voto — così com’era — facesse contento qualcuno. In quegli occhi e in quella concitazione ho rivisto qualcosa che rischiavo di perdermi: la speranza che qualcosa che si era iniziato a fare potesse contribuire a migliorare, se non addirittura a salvare, la vita.
C’è questa tentazione nell’uomo, ben descritta nel recentissimo documento della Santa Sede dedicato alle nuove eresie, di pensare che la salvezza sia un prodotto delle nostre scelte. Sposarsi, far laureare un figlio, vincere un’elezione sembra qualcosa che possa davvero strappare noi e il mondo intero dal nulla. Io so benissimo, per le tante volte in cui ho vissuto questa tentazione, che niente di questo è vero, che il voto non è qualcosa che riguarda la salvezza, perché la salvezza, quella vera, avviene sempre per qualcosa che accade, per qualcosa che viene dal di fuori dell’uomo e lo cambia — lo trasforma — interiormente. Quante volte vediamo amici o figli compiere scelte pensando che queste possano salvarli dalla tristezza e dalla mestizia mentre, al contrario, sappiamo che li condanneranno in una prigione forse più larga, ma non per questo meno angusta.
Eppure c’è un però che quei ragazzi mi hanno ridonato: la consapevolezza del fatto che in ogni eresia c’è una verità impazzita. La loro gioia è vera, perché la loro domanda è vera. Io non so se hanno votato bene o se le scelte che stanno compiendo siano tutte morali, ma so che le domande da cui partono per fare quelle scelte, perfino per votare, mi interessano. E allora in questa fase post-voto occorre stare attenti a non perdere di vista le domande più profonde e più vere che hanno mosso il nostro popolo nelle sue indicazioni come la domanda di una certezza, di una giustizia o di una bellezza non inquinata dalla corruzione e da scelte sproporzionate rispetto alle nostre capacità in materia economica o di sicurezza.
Più ripenso ai loro volti, più li guardo adesso cantare su questo pullman, più mi rendo conto che nel momento in cui io non riesco a essere contento della contentezza dell’altro, sono io che ho un problema, un problema con la vita, un problema con la domanda che li fa contenti. Io non voglio che loro vivano dell’ebbrezza degli ubriachi, ma non voglio neppure perdermi la loro gioia. Se io non sapessi gioire della loro felicità, o peggio non potessi gioirne in nome di un’astratta morale, vorrebbe dire che l’esperienza che sto facendo è disumana, censura qualcosa dell’umanità per potersi affermare nella sua interezza. Al contrario, in quello che loro vivono e che scelgono c’è una strada per me e per il dramma che mi rende uomo.
Loro sono l’inizio di un cammino, le scelte del nostro popolo sono l’inizio di un cammino, le decisioni di chi ci sta accanto sono sempre l’inizio di un cammino. Per loro e per noi. E mi rendo conto che io posso stare qui ad analizzarle o a biasimarle, oppure — con molto più coraggio, ma anche con molta più semplicità — posso mettermi accanto a loro pieno di stupore e di serenità, certo di alcune grandi cose che mi rendono più appassionato alla vita, alla loro vita, anche a quella che non mi piace. Il Bene è sempre qualcosa che ci precede e il Mistero della vita ci porta su strade e pensieri sempre nuovi e fantasiosi.