Isaia è il nome di uno dei più importanti profeti della Bibbia: fedele consigliere dei re di Israele, chiese loro saggezza nello scegliere di evitare lo scontro con il regno assiro per evitare — come per altro poi successe — di essere travolti e sconfitti. Non lo ascoltarono e venne la notte. Isaiah è il nome di un altro neonato che, proprio come nel caso di Charlie Gard, è finito al centro di una dolorosa opposizione fra genitori e giustizia britannica circa le disposizioni straordinarie da porre in essere per la sua sopravvivenza dopo un “catastrofico danno celebrale” occorso alla nascita. Anche Isaiah Haastrup non è stato ascoltato e anche in questo caso è scesa la notte. 



I due casi non sono perfettamente sovrapponibili, ma è chiara una sproporzione fra i dibattiti che ci sono stati nello svolgersi delle due vicende: clamore e attenzione per Charlie, qualche riga per Isaiah. L’uomo si abitua al male, è vero, ma è altrettanto vero che noi oggi non ci troviamo più ad avere a che fare con i fatti, bensì con il contesto emotivo e polemico che essi determinano. Charlie non ha interessato i media perché era vivo e voleva vivere, ma per ciò che rappresentava. Nella cultura dello scarto Isaiah è stato accantonato perché non rappresentava più niente, perché già con Charlie c’era stata la notizia, ovvero che è possibile per un tribunale violare la relazione medico-paziente imponendo un giudizio terzo dettato da criteri economici e probabilistici, più che dalla scienza e dalla ricerca del bene.



Se questo è vero, resta sul tavolo una domanda per tutti: perché questo caso non ci ha mobilitati? Che cosa c’era di meno questa volta nel dibattito in merito? Per capirlo bisogna pensare a quando in una famiglia accade qualcosa di molto brutto: all’inizio tutti accorrono e la casa si riempie di eroi e di generosità, ma poi — giorno dopo giorno — rimangono in pochi, quasi nessuno sopporta di stare così in contatto con la contraddizione e il dolore. Con Isaiah è accaduta la stessa cosa: la sua vicenda fa riemergere domande che non abbiamo del tutto affrontato e che il “caso Charlie” ci ha illuso di aver superato. La vita è testarda e ciò che ci taglia le gambe non è l’evento straordinario, ma che un fatto cominci ad essere del tutto ordinario. Isaiah è stato profeta di una lunga notte delle coscienze, in cui le battaglie epiche di qualche idealista non potranno mai sostituire la necessità di un affronto vero del mistero del vivere: che cosa vuol dire, precisamente, vivere? Perché siamo al mondo? Per che cosa siamo fatti? 



Tutto è semplice in guerra, tutto è complicato durante la pace, nel mondo ordinario. E Isaiah è stato davvero il profeta della necessità che tutti abbiamo di non scappare davanti alla realtà e di imparare ad essere umili, veri, crudi di fronte ad ogni dolore che diventa — volenti o nolenti — nostro compagno di viaggio. Esercito assiro ancora una volta alle porte della nostra piccola, e magari diroccata, cittadella nel deserto.