Caro direttore,
qualcuno, in questi giorni, mi chiede: “Cos’è Pasqua per un carcerato?” Non so cosa significhi per gli altri, so quello che dice a me. In questa settimana che vede il suo epilogo oggi, con la celebrazione della resurrezione di Cristo, è inevitabile non pensare alla rinascita. La rinascita, come la nascita, è una cosa che accomuna tutti: ognuno di noi nasce, ognuno di noi, metaforicamente parlando, almeno una volta nella propria esistenza muore per poi rinascere, così come le fenici rinascono dalle proprie ceneri. “Post fata resurgo; dopo la morte risorgo”. Il termine “risorgere” non vuole significare “cancellare il proprio passato o i propri errori”, tutto questo sarebbe troppo semplice, ma bensì lasciarseli alle spalle senza dimenticarli, tenere a mente ciò che siamo diventati oggi, senza dimenticare chi eravamo ieri.



Mi chiamo Jacopo, ho ventotto anni, e oggi posso dire con gioia, senza alcun dubbio, che sono rinato. La mia storia ha per protagonista un ragazzo con disturbi comportamentali dovuti all’ambiente familiare dal quale giunge. All’età di soli tredici anni i servizi sociali mi hanno tolto dalla mia famiglia per affidarmi a una comunità di minori, nella quale sono rimasto per tre anni. I primi tempi sono stati molto duri, ho dovuto fare i conti con una realtà pesante. Ero ancora un bambino e mi trovavo a dover affrontare un ambiente che pensavo non mi appartenesse, un’età in cui un bambino dovrebbe solo giocare e studiare, e invece mi sono trovato a conoscere la doga, l’alcol, il sesso e la violenza. Tutto questo mi ha portato a crescere in fretta. Uscii all’età di sedici anni e la mia istruzione aveva come unico bagaglio cose negative: ero un intenditore di droga e spaccio, ma non avevo mai letto un libro, facevo sesso ma ignoravo come si amasse, mi trovavo circondato di tante persone ma ero concentrato solo su me stesso.



Nella mia vita ho fatto quanto di peggio un uomo possa fare: ho rubato, ho preso parte a rapine, ho venduto droga, sono stato un alcolizzato e un tossicodipendente, ma la cosa più grave è avvenuta quando ho barbaramente ucciso un ragazzo della mia età per motivi legati allo spaccio di droga. Sono entrato in carcere appena maggiorenne, ma a differenza di quando entrai in comunità, non ero più un bambino spaesato e spaventato, ma un ragazzo incattivito dalla vita e dalle esperienze vissute fino a quel momento. I primi tre mesi li ho trascorsi in isolamento, lì conobbi l’astinenza dalle droghe ma riuscii a superarla e mi disintossicai.



I due anni successivi li ho trascorsi all’insegna delle risse e della cattiva condotta, ma dopo due anni ho iniziato a sentire il peso della vergogna causata alla mia famiglia e, la previsione di una condanna troppo lunga da scontare mi ha portato a scegliere la via più breve, il suicidio. Una notte, deciso a farla finita, scrissi una lettera alla mia famiglia e mi impiccai. Fui salvato da un agente e poco dopo mi trovai ricoverato al manicomio criminale. Ho passato quasi tre anni in quattro manicomi diversi, ho provato sulla mia pelle cosa volesse dire essere legato alle caviglie e ai polsi in un letto di contenzione ed essere imbottito di psicofarmaci, ormai venivo considerato un pazzo e di conseguenza fui emarginato.

Nel 2014 sono stato dimesso, non ero più ritenuto un soggetto socialmente pericoloso per me stesso e per gli altri, così sono tornato a scontare la mia pena in carcere. Tre anni fa sono arrivato al carcere di Padova, e fin dal primo momento ho trovato una realtà diversa dai carceri che avevo frequentato in precedenza, perché aperta al reinserimento della persona detenuta. Qui ho iniziato a lavorare per la cooperativa “Giotto” al call center, un lavoro che mi piace molto perché mi permette di mettermi in contatto con le persone all’esterno. Inizialmente è stato uno shock: il fatto di dovermi relazionare con gli altri era sempre stato per me molto difficile. Lavorando ho iniziato ad avere delle responsabilità e delle regole da rispettare, questo mi ha aiutato a crescere perché ci sono state persone che mi sono state vicino e mi hanno dato fiducia.

Nel 2016, dopo diversi anni, tornò nella mia vita mio padre, così ho iniziato a pensare che le cose, per la prima volta, avevano preso ad andare per il verso giusto; invece scoprii che gli era stato diagnosticato un tumore ai polmoni e da lì a pochi giorni morì. In quel momento ho sentito il mondo crollarmi addosso. Mi trovavo nel momento più difficile della mia vita ed è a quel punto che ho incontrato Gesù. Lui non è solo nelle chiese o nella Bibbia, Lui è nelle persone, nella vita di tutti i giorni, è ovunque. Ho incontrato Gesù attraverso un ragazzo di nome Samir, un memores domini di Comunione e liberazione con cui ho intrapreso un percorso di fede difficile ma vero, fatto di alti e bassi, ma che mi ha permesso di avvicinarmi alla Chiesa e di conoscere persone fondamentali per la mia rinascita. Ho conosciuto don Michele e don Marco, due preti agli antipodi, ma per me complementari; ho conosciuto volontari e volontarie del carcere che mi sono stati molto vicini.

Il 30 dicembre dello scorso anno ho ricevuto i sacramenti della Cresima e della Comunione, ad oggi ritengo quel giorno il più bello della mia vita, non solo perché questo mi ha permesso di avvicinarmi a Dio, ma anche per la presenza di mia mamma e mia sorella all’interno della chiesa del carcere. il loro sguardo così fiero di me, dopo tutte le sofferenze che ho recato loro è stata una soddisfazione immensa, una rivincita personale, il primo e finora più importante traguardo che ho raggiunto da quando sono rinato. 

Ancora oggi, ripensando a quello che mi ha detto mia mamma, mi commuovo. Lei piangendo mi ha detto: “Oggi sono veramente orgogliosa di te, questo è in assoluto il giorno più felice della mia vita”. Se penso che queste parole, così piene d’amore, sono state dette da una madre al proprio figlio recluso all’interno di un carcere di massima sicurezza, penso anche che la presenza di Gesù in quell’istante era tangibile.

Questo percorso di fede e rinascita mi ha permesso di fare un lavoro su me stesso, prendere coscienza degli errori e orrori che ho commesso nella mia vita. Don Marco è solito dirmi: “Un giorno potrai essere un ex detenuto, ma non un ex omicida”. Queste parole, per quanto crude, le sento vere. Io ho ucciso e questo peso lo porterò dentro per tutta la vita, dovrò conviverci, ma è qualcosa di cui oggi provo vergogna seppure non rinnegandola, ed è solo grazie all’Amore di Dio se oggi mi sono pentito di quello che ho commesso e della mia crudeltà. Il pensiero di aver tolto la vita a una persona, di aver tolto un figlio alla propria madre è per me un pensiero costante che mi toglie il sonno alla notte e rende le mie giornate più pesanti, ma poter prendere consapevolezza di tutto questo è stato in assoluto il dono più grande che il Signore potesse farmi; mi sono sentito perdonato.

Sento forti dentro di me le parole che riporta l’apostolo Giovanni nella parabola della donna adultera: “Neanch’io ti condanno. D’ora in poi non peccare più!” E’ come se le dicesse a me, oggi che soprattutto in carcere è Pasqua. La mia prima pasqua da rinato. Non posso sapere chi sarò domani ma so bene chi sono oggi: un ragazzo che non dimentica chi è stato ieri. E che cosa ha fatto ieri.