“Decine di migliaia sono emigrati, da quando quell’annunciatrice ha iniziato a trasmettere i nomi dei cadaveri. Senz’altro, migliaia di quelli che viziavano gli alberi han toccato per la prima volta la pelle delle valigie e le han trasportate, affranti, in paesi crudeli e sconosciuti. Ci han messo dentro le fotografie, dov’erano sorridenti accanto alla porta e vicino all’aiuola di basilico, le han riempite con un po’ di respiri delle stanze, han dato un ultimo sguardo e sono andati via. Mi han raccontato che alcuni non han nemmeno avuto il tempo di indossare le scarpe prima di partire. Son giunti scalzi e nudi in villaggi e città, e han fatto amicizia con la nuda terra per dormire con lei. Han detto che la morte è arrivata all’improvviso, mentre dormivano; che la morte è arrivata all’improvviso nei panni di amici; che la morte è arrivata all’improvviso da un cielo che, solo il giorno prima, faceva piovere su di loro e sui loro campi. Han detto che molti son caduti dopo un sol passo, molti senza muovere un passo, e che su molti sentieri, laggiù, ancora si sente un lamento, e che alcune madri han dimenticato i figli nei loro letti per il gran terrore, partendo senza di loro.
Penso che pioverà. Le nuvole vengono da lontano. Probabilmente, dal cielo di paesi in cui ci sono migranti, forse scorreranno qui alcune delle loro lacrime. Il loro addensarsi somiglia ai respiri dei migranti, nel loro muoversi lento sopra le case c’è qualcosa dei loro strazi. Penso che pioverà”. (Wadih Saadeh)
L’indifferenza è morte: una morte della volontà e poi dell’anima. All’indifferente resta solo un corpo appesantito dall’indolenza e preda della noia. Viviamo in un mondo di vetro, privo di ombre, senza profondità né mistero, senza un muro al quale appendere le nostre gioie e le nostre tristezze, la nostra passione e il nostro desiderare. Un mondo che, come il vetro, non ha un oltre né un attraversamento. Un mondo che non conosce l’impossibile, perché non gli interessa il possibile. Un mondo che non teme la morte e non spera nella resurrezione.
Eppure, con ostinazione che non conosce disperazione, carico d’acqua e di lacrime, lui torna ogni volta a coricarsi per terra con il suo corpo affaticato e l’anima ragazzina che vola nel cielo, e torna a chinarsi sui piedi altrui per lavarli e baciarli. Nelle sue orecchie, forse, riecheggiano le parole: “Svégliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà” (Efesini 5,14). Nobile uomo, quanti piedi dovrai lavare, affinché milioni di anime si sveglino dall’indifferenza? Quanti ne dovrai lavare, affinché non si rechino a messa con indifferenza, per ricevere i sacramenti con cuori che non sanno gustare il sapore dell’impossibile divenuto possibile? Quanti ne dovrai lavare, affinché smettano di salmodiare la verità di una certezza che non li interessa più? Quanti ne dovrai lavare, affinché aprano gli occhi e vedano, nel desiderio e nelle pene di questi migranti, l’invito alla propria resurrezione?