Il contraccolpo è di quelli che lasciano il segno. Gaudete et Exsultate, la nuova esortazione apostolica di Papa Francesco sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, ridisegna i contorni di un’esperienza — quella appunto della santità — per molto tempo ritenuta di pochi e per pochi. Tante le sfumature di questo documento e tanti gli interventi che potranno aiutare a capirlo, eppure in questo momento sono alcune piccole cose che fanno riflettere e dettano il gusto delle parole di Francesco. 



Anzitutto la considerazione del fatto che la santità abbia a che fare con la gioia. È la terza esortazione apostolica di questo pontefice che nel titolo contiene un esplicito riferimento alla letizia: Evangelii Gaudium e Amoris Laetitia sono infatti i prodromi di un disegno sistematico del Vescovo di Roma che ha nella riconciliazione del cristianesimo con il piacere e la gioia di vivere la sua cifra più alta e dirompente. Essere cristiani, essere santi, è sperimentare una commozione e una bellezza unica che non permette moralismi e che spalanca ad un desiderio infinito di bene e di autenticità senza compromessi. 



Il dono della vita coincide col dono della felicità: è questa consapevolezza che l’incontro con Cristo, seppure come tremolante alba, ridesta prepotentemente in ognuno di noi. Qualunque cosa abbiamo fatto, qualunque sia stata la nostra strada, l’ultima parola è questo inizio indomito di tenerezza e di misericordia che mai si arrende e che, come un presentimento, ci insegue e ci cerca. 

La santità non è dunque un risultato, l’esito di una conoscenza gnostica o di una volontà pelagiana di perfezione, non è ripetizione di un modello, ma un tuffo nella vita, un rapporto autentico con sé e con la realtà. Come non avere negli occhi alcuni amici e la loro corsa verso Dio piena di entusiasmo e di baldanzosa libertà: si pensi al giovane Marco Gallo, alla mamma Francesca Pedrazzini, al volto indimenticabile di Marta Bellavista o all’umanità di Giovanni Bizzozero, santi della porta accanto — come li definisce il Papa — che non si trovano sugli altari, la cui vita non è un modello da rifare, ma uno sguardo da seguire. La prova ne è che la loro assenza, come l’assenza di tanti a noi cari, ha lasciato dolore, sgomento, ma sempre spazio ad una nuova e impensabile presenza. Perché queste testimonianze feriali che ogni giorno tra noi lavorano, ridono e abitano intensamente gli istanti loro dati non cancellano tutta l’aridità e la fatica del vivere, la domanda di un perché, di un senso all’ingiustizia e al dolore. 



Ed è questo forse che sorprende di più di tutta l’esortazione: il legame tra la santità e la nostra povertà, quasi che dentro al buio, dentro a qualunque buio — da quello del tormento e della dipendenza a quello di una malattia misteriosa o della depressione — il Santo non fosse colui che ne esce vincitore o che tutto risolve, ma colui che sta, che rimane sulla Croce, fino all’ultimo, fino all’arrivo del Padre. La Santità secondo Francesco è questa misteriosa certezza non delle nostre virtù eroiche, ma della Grazia di un Altro. Di quel Cristo che non smette mai di cercare il nostro cuore ferito. E che fa di quella ferita l’inizio inaudito di una gioia piena e imprevista. 

Essere Santi non è dunque un optional, un feticcio di un mondo passato, ma è quello che il cuore di ognuno aspetta. Quello a cui ciascuno è chiamato. La festa preparata per tutti, la consapevolezza di un amore per cui vale davvero la pena rimanere umani, restare liberi e mendicanti di fronte al Mistero. Un’esperienza per cui, al tramonto del giorno o della vita, uno si possa guardare indietro grato. Certo che niente di quello che ci è stato dato sia rimasto piccolo o inutile. Pronto ad accogliere, nei piatti da lavare o nelle lacrime da versare, il silenzioso respiro di Uno che non si è dimenticato di noi.

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