Una strana guerra si svolge in Siria. È fatta di carneficine quasi ignorate, esodi biblici ormai non più computabili e periodici titoli di apertura di siti internet e tv con tanto di bombe chirurgiche e obiettivi sensibili. Non sembra una guerra mondiale: la si intervalla con la Champions League, i maltrattamenti agli animali e varie scenette di politica italiana. Eppure c’è ed è reale. Le grandi potenze la fanno, ma con misura; la cercano, ma fino ad un certo punto. Delle cause e degli scopi di tale guerra circolano in rete le informazioni più contraddittorie e disparate al punto che, in fondo, nessuno sa quale sia la verità più affidabile. 



Tutta questa confusione è immagine dei nostri tempi: tra una cosa e l’altra, tra un aperitivo e una coda, c’è una guerra dentro di noi. Anche di questa guerra si sa poco, se non che c’è e che è potenzialmente molto pericolosa. Ciò che la alimenta è l’incertezza, quel senso di indefinito che attraversa il Medio Oriente e il cuore di ciascuno. Ciò che la motiva è la ricerca del controllo, del possesso, come unica possibilità di realizzazione e di promozione di sé. Il male che vediamo fuori, i boati che avvertiamo nel deserto, sono solo un’eco di ciò che accade dentro. 



E forse è per questo che non la capiamo: perché non ci è chiaro a che cosa serva tutto questo dolore che ci portiamo addosso e che diventa più acuto ad ogni tweet, ad ogni mezza frasetta pronunciata da chi non ti aspetti e che rende inevitabilmente più difficile sopportarsi, accogliersi. Il nostro interesse per la situazione è frammentato, disomogeneo, liquido: si va dalla crisi acuta all’indifferenza più assoluta. Nonostante questo, proprio per questo, sappiamo tutti che non è possibile ignorarla. Ciascuno ne ha una lettura, un’opinione, una prospettiva. Ma nessuno, in fondo, sa come uscirne. 



Poi leggi di alcuni amici che partono per Aleppo proprio nei giorni dei bombardamenti americani, che stanno con poveri, orfani e vedove, sorridono e fan festa. Allora, come i discepoli nei giorni dopo Pasqua, si stenta a credere a quel che si vede: la vita che ricomincia, l’umano che non demorde e che si rimette in cammino. Perché anche sotto le bombe, anche nel pieno della più buia tra le crisi, ciò che fa la differenza è una presenza, una storia umana particolare, che ricomincia ad amare e che — proprio attraverso quel bene gratuito — rende di nuovo possibile guardare al futuro non schiavi del male, non ostaggio del bisogno di un potere che tutto piega e uccide. 

Ci sono tanti villaggi dentro di noi che avrebbero bisogno di essere ricostruiti e forse perdonati. È da questo nuovo inizio che può venire la pace, il passaggio dal bisogno del potere al potere del bisogno, del desiderio ultimo di essere uomini. Ma senza un fatto storico di positività e di bellezza non è possibile essere liberati dall’illusione che sia sufficiente avere per godere e tutto, ma proprio tutto, può essere manipolato. 

In questa strana guerra senza battaglie, ma con un’ecatombe di morti, la vera scommessa è su ciò su cui nessuno scommetterebbe. Ovvero il fatto che la pace tra i popoli e nel cuore non avvenga in due giorni, ma attraverso infiniti momenti di verità, di bellezza, di nuovo inizio. Sembra troppo poco seguire il cuore e non le armi, il bisogno e non i beceri interessi. Ma conoscete qualcosa di più rivoluzionario che far vivere ciò che era morto e iniziare ad amare ciò che si è sempre odiato? La guerra non finisce il giorno in cui tacciono le armi, ma il giorno in cui combattere diventa molto più difficile che arrendersi a tutto il bene che c’è. La chiamano crisi siriana, ma tutti noi sappiamo che quegli aerei nel cielo di Damasco riguardano il cammino e il tormento di ciascuno di noi in questo strano e confuso scorcio di fine decennio.