Ieri alle 16.22 è arrivato il verdetto: la Corte di Londra ha respinto il ricorso dei genitori per fermare il distacco delle macchine che alimentano e fanno respirare il piccolo Alfie Evans. Per lui era intervenuto, ancora domenica 15, anche papa Francesco, affacciandosi a quella sua finestra che dà sul mondo. Solo un miracolo avrebbe potuto guarirlo, ma non per questo era lecito tagliare quel filo sottile che lo tiene ancora in vita.
La vicenda è nota ormai al mondo intero: Alfie è gravemente malato, ma i suoi genitori desiderano accompagnarlo fino alla fine, senza inutili accelerazioni e senza nessuna forma di accanimento, rispettando i ritmi della sua malattia. Ma un sistema burocratico-istituzionale ha deciso, con una durezza degna di miglior causa, che ormai è giunta l’ora di staccare la spina, di spegnere quelle macchine che finora gli hanno garantito quel minimo di cure essenziali per alimentare la sua vita. Una nutrizione e un sostegno minimo, ma sufficiente a dare alla sua famiglia la piena convinzione che si stava facendo tutto il possibile.
Ha trovato, dunque, conferma l’ostinazione con cui clinici e magistrati inglesi hanno continuamente detto no ai desideri dei suoi genitori, mentre dall’Italia si era alzato, per l’ennesima volta, un invito che partiva dall’Ospedale Bambin Gesù, ma sicuramente aveva dietro anche l’affettuosa pressione del Papa. Lasciate che Alfie venga a Roma: se il suo destino è la morte, allora non ci sono dubbi. Morirà durante il viaggio, che rappresenta per lui un ulteriore stress, ma anche un fattore di speranza. Se il miracolo è possibile, allora lasciate che avvenga nell’ospedale del Papa, assistito da clinici eccellenti per competenze umane e professionali. Ora, per non spegnere definitivamente ogni speranza in questo trasferimento, non resta che l’ultimissima possibilità, un ricorso dei genitori di Alfie alla Corte Suprema, anche se i tempi sono strettissimi.
Il paradosso di questa storia così drammatica e densa di pietà è che non si sia lasciato nessuno spazio a quel famoso principio di autodeterminazione, o meglio ancora a quel consenso informato, che rappresenta la dorsale dell’intera legge sulle Dat. Lo Stato si sostituisce alla volontà della famiglia senza indietreggiare neppure davanti a richieste che lo solleverebbero di qualsiasi ulteriore responsabilità. Lo Stato vuole, però, che Alfie muoia per mano dello Stato stesso; con un suo specifico decreto, calpestando la volontà di mamma e papà, esautorati nel loro ruolo genitoriale di cura e di accudimento. Alfie rivela tutta l’ipocrisia di un Paese come la Gran Bretagna, in cui è in atto una vera e propria rivoluzione copernicana, perché si accantona il ruolo del medico, con la sua autorità morale e scientifica, per sostituirla con il principio di autodeterminazione del paziente. Ma per Alfie questo non vale. Così come era accaduto per il piccolo Charlie. Ai bambini e ai loro genitori non si riconosce capacità di autodeterminazione; per loro vale il principio che sono proprietà dello Stato e lo Stato decide per loro. E questo lo chiamano pietà, mentre in realtà non è altro che una diversa forma di tirannicidio.
Quel che è vero, anche se è politicamente scorretto affermarlo, è che l’unica cosa che ha diritto di voce è la volontà di morte. E il principio di autodeterminazione viene invocato quando è la morte che chiama. Nel caso della vita, gli artifici lessicali che si invocano sono infiniti, ma la sostanza è una sola: Alfie Evans oggi, come Charlie ieri, non hanno diritto a vivere, perché la vita “imperfetta”, di chi presenta una qualsiasi forma di disabilità impone agli altri una riflessione che non si è disposti a fare. Il no alla sofferenza identificata tout court con l’infelicità, è il vero grande stigma della società contemporanea.
Accogliere Alfie Evans oggi è accettare che anche la nostra vita ha o comunque può avere le sue lacerazioni, le sue imperfette perfezioni, eppure continuare ad avere senso; può ricevere amore e perciò stesso può aspirare ad essere felice.