In questi giorni nelle edicole di Milano si può comperare il numero speciale che Monocle ha dedicato a Milano in occasione della settimana del Salone del Mobile. Per chi non lo conoscesse, Monocle è una delle riviste più di tendenza del mondo, con una grafica che ha fatto scuola e con osservatori disseminati in tutto il mondo per scoprire trend e fenomeni in ascesa. Sulle pagine di Monocle si scopre una Milano magnifica, capace di sposare modernità e storia. Lo sguardo dei giornalisti della rivista inglese è stato capace di scovare non solo le solite cose ma anche risvolti che neanche i milanesi conoscono, come le scuole progettate negli anni Settanta da Guido Cannella o la villa Borsani di Varedo, eccezionalmente aperta al pubblico in questi giorni con i suoi straordinari arredi disegnati da Lucio Fontana. Quello che non si legge sulle pagina di Monocle lo si vede poi nelle strade, dove una marea di giovani creativi come ogni anno si sono dati appuntamento. La formula complementare del Salone alla Fiera di Rho e del Fuorisalone diffuso è una formula collaudata e che sembra funzionare sempre meglio. Milano dà grandi opportunità al business e insieme lascia campo libero alla sperimentazione e alla innovazione. Quest’anno il sole e la quasi estate rendono poi tutto ancora più positivo e più vitale. Davvero si avverte tanta energia in città. 



Tutto bene e tutto bello dunque. Ma proprio perché sull’onda di questo indubbio momento magico, sarebbe giusto chiedersi come immaginarsi nel futuro. Il successo potrebbe essere l’occasione per un intelligente esame di coscienza. I fenomeni come la settimana del Salone chiedono comunque sempre il coraggio di innovare. Su cosa Milano deve puntare per continuare ad essere quella che stupisce dalle pagine di Monocle? Ad esempio deve liberarsi da una patina di provincialismo che comunque ancora contrassegna tanti aspetti della sua vita culturale. L’arrivo di un uomo come Stefano Boeri alla guida della Triennale può rappresentare certamente una scossa per un’istituzione che è stata un punto di riferimento nel passato e che da anni è prigioniera dei soliti circoli e dei soliti nomi. Come conferma purtroppo la proposta del Design Museum di quest’anno, con quel percorso tutto retrospettivo e autocelebrativo, con la sfilata dei soliti oggetti mitici di un passato lontano o recente, senza capacità di fornire provocazioni e stimoli. 



Milano deve aprirsi molto di più al mondo, essere catalizzatrice del nuovo, senza mettere confini a questo nuovo. Ci si deve confrontare con le visioni di architetti e di designer che stanno lavorando nelle periferie del mondo: è lì più che negli studi delle archistar che si elabora il nuovo. A proposito di periferie, si deve essere anche più coraggiosi nel far decollare processi creativi e progettuali nelle zone marginali della città. Di periferie si parla tanto, ma poi le si guarda sempre da fuori e nei fatti le si abbandona a loro stesse: sulle periferie si fa accademia senza rischiare percorsi davvero innovativi. C’è poi il tema della formazione, sul quale una città come questa deve investire molto di più, per essere un laboratorio aperto tutto l’anno e non solo per una pur bellissima settimana. Essere una fucina di “mani che pensano” per usare la bellissima immagine con la quale Richard Sennett definiva la qualità unica delle botteghe italiane. Meglio sognare obiettivi come questi che cullarsi nella gloria di questi pur magnifici giorni.

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