Dopo oltre 5 anni di inchieste, interrogatori, testimonianze, polemiche in cui sono stati coinvolti in veri e propri aspri conflitti magistrati, uomini politici e le istituzioni della repubblica (fino al suo presidente Giorgio Napolitano) si comincia a intravedere un po’ di luce.

Il Tribunale di Palermo presieduto da Alfredo Montalto ha accolto la ricostruzione fatta della procura diretta da Antonio Ingroia sulla stagione del 1992-1993.



E’ certamente un grande successo, che in parte rimedia alle malevolenze e intimidazioni da cui è stato circondato il suo lavoro per il grave errore di Ingroia di voler scrivere con le sentenze la storia d’Italia e riformare la stessa politica.

Ieri sera è stato confermato che la trattativa tra esponenti del più feroce clan mafioso (da Ciancimino a Riina e Bagarella) e funzionari dello Stato di ogni vertice e grado ci sono state. Gli uni volevano porre un argine alle stragi e agli attentati che hanno insanguinato, all’inizio degli anni Novanta, Roma, Milano e Firenze; gli altri volevano correzioni profonde (anzi l’abolizione) del regime carcerario del 41-bis, sconti di pene e facilitazioni varie per migliorare la vita in carcere.



Ha colto bene il punto il pm Nino Di Matteo parlando di una “sentenza storica”: “Ora abbiamo la certezza che la trattativa ci fu. La corte ha avuto la certezza e la consapevolezza che mentre in Italia esplodevano le bombe nel ’92 e nel ’93 qualche esponente dello Stato trattava con Cosa nostra e trasmetteva la minaccia di Cosa nostra ai governi in carica. E questo è un accertamento importantissimo, che credo renda un grosso contributo di chiarezza del contesto in cui sono avvenute le stragi. Contesto criminale e purtroppo istituzionale e politico. Ci sono spunti per proseguire le indagini su quella stagione”.



In questa trattativa, diretta e indiretta, sono stati coinvolti personaggi che non ci sono più, come l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, ministri dell’Interno, parlamentari, alti funzionari della polizia, ecc.

I magistrato di Palermo sono stati determinati nell’assolvere pienamente da ogni imputazione l’ex presidente del Senato e vicepresidente del Csm Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza. Agli storici resta il problema di capire come sia stato gestito in quel periodo il ministero a lui affidato. Ma si tratta di un questione storiografica e non più di un reato.

E’ stata ribadita la condanna a 12 anni dell’ex senatore Marcello dell’Utri che con i corleonesi ha avuto rapporti riconosciuti e sanzionati anche dalla Corte di Cassazione. Dalle motivazioni si capirà se quel che rende felice, anzi gaudente, l’on. Luigi di Maio (cioè un eventuale coinvolgimento di Berlusconi) non sia il solito chiacchiericcio di chi vive nel mondo cupo e triste della cultura del sospetto e nel rito tribal-autoreferenziale della propria personale onestà.

I mafiosi condannati sono già deceduti o hanno potuto godere, come il pentito Luca Bagarella, della prescrizione. Massimo Ciancimino, il supertestimone del processo, è stato condannato a 8 anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Pesante è stata la condanna per gli uomini delle istituzioni. 12 anni per gli ex generali Mario Mori e Antonio Subranni, 8 anni per l’ex colonnello Giuseppe De Donno.

Dalle motivazioni si capirà se si sono trasformati in ambasciatori dei boss, cioè se siano stati puniti anche per il doppio gioco con Riina e Provenzano, e quindi per il mancato arresto del primo sulla base della concessione accordatagli di potere rovistare negli archivi della sua abitazione.

Negli anni è venuto scemando l’antico pregiudizio per cui i governi presieduti da Silvio Berlusconi fossero l’incarnazione, se non la continuazione, sotto altre spoglie, dei desideri e più specificamente degli interessi della mafia. Il principale fu quello di non essere perseguita e condannata. Per circa una ventina di anni una parte dell’opinione pubblica e della stampa si è alimentata dell’idea che attraverso le fortune elettorali e il pervasivo controllo delle istituzioni da parte di Forza Italia, i boss si sarebbero fatti “rappresentare” da governo e Stato. Non avrebbero, quindi, avuto più bisogno di dedicarsi ad attività delittuose.

E’ in realtà quanto è avvenuto, dal momento che dopo il 1993 è iniziato una sorta di loro diminuzione, se non di declino, che dura fino ad oggi.

Le sentenze della magistratura, fino ai vertici della Corte di Cassazione, avevano stabilito che Berlusconi e lo stesso Marcello Dell’Utri non avevano mai preso parte a trattative con Cosa nostra sul regime detentivo dei suoi membri. Né per conto dello Stato e del governo, né per conto dei Corleonesi. Dello scambio tra la mitigazione delle severissime pene previste dell’articolo 41-bis del codice penale e la fine dell’azione stragista dei boss, allo stato dei fatti, cioè delle prove disponibili ai magistrati, i fondatori di Forza Italia non si sembrava si fossero mai occupati. Ora la sentenza della Corte presieduta da Alfredo Montalto sembra aver corretto questa interpretazione. La lettura delle motivazioni diventa pertanto indispensabile prima che la politica si impadronisca, e perverta, le acquisizioni giudiziarie.

Tutta la vicenda connessa alla trattativa si è consumata negli anni 1991-1994, durante i governi di centrosinistra. Rilevare questo dato di fatto, per un giudice o uno studioso, non può significare valorizzare questo o quello schieramento politico come il più adeguato ed efficace nel contrastare la lotta contro la criminalità organizzata. Per chi è fuori della mischia e vuole esprimere valutazioni non segnate da un pregiudizio favorevole deve essere assolutamente indifferente sotto quale coalizione di governo abbia avuto luogo l’assai ambiguo rapporto stabilitosi tra lo Stato e l’associazione criminale.

E’ una regola che dovrebbero imparare anche i giornali. Mi riferisco al Foglio, che prima con Giuliano Ferrara e ora con Claudio Cerasa si è dedicato, sulla trattativa Stato-mafia, non ad informare ma a formare il pubblico dei lettori. Ai fatti, complessi e intriganti, ha preferito commenti e articoli sentenziosi, cioè la logica del pregiudizio.