Si può da un fatto accaduto trent’anni prima risalire all’autore, soprattutto se un comportamento a dir poco maldestro da parte della magistratura, ha distrutto la prova più importante, il dna? Nel caso dell’omicidio di Lidia Macchi, risalente al gennaio 1987, la condanna di Stefano Binda all’ergastolo ci direbbe di sì. Il problema è che si è trattato di un processo indiziario e di una sentenza indiziaria anch’essa, perché manca alcuna prova concreta compresa l’arma del delitto. Abbiamo contattato lo psicologo e criminologo Alessandro Meluzzi e lo scrittore e criminologo Luca Steffenoni: per il primo “di tutti i processi indiziari conclusisi con una condanna in questi ultimi anni, questo è quello in cui la sentenza è stata espressa con la maggior ragionevolezza”. Per il secondo “la condanna di Stefano Binda si basa solo su prove indiziarie e sul ritratto psicologico del personaggio, ma si tratta di indizi così labili e frammentari e di un tale lasso di tempo dagli eventi, che chiunque oggi potrebbe costruire una accusa”.
Meluzzi, il processo contro Stefano Binda, accusato di aver ucciso Lidia Macchi, è stato un processo evidentemente indiziario, senza alcuna prova concreta, è d’accordo?
Certamente, è stato un processo indiziario in cui però c’erano molti elementi concordanti, convergenti e logicamente indirizzati alla sua colpevolezza.
Quali, ad esempio?
Direi soprattutto gli scritti, le lettere, la poesia di Pavese (“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, ritrovata nella borsetta di Lidia e considerata la preferita di Binda, ndr), i diari dell’epoca del Binda con la foto di Lidia attaccata sulla pagina successiva all’omicidio, l’8 gennaio, frasi inquietanti da lui stesso scritte come “Stefano è un barbaro assassino”. Ma anche le condotte e le incapacità di ricostruire un racconto plausibile che sia alternativo a quello della narrazione del periodo dei fatti, ad esempio dove si trovasse realmente al momento dell’omicidio. La sua tesi non ha trovato prove decisive. L’atteggiamento tenuto da Binda durante il processo ha confermato e confortato la tesi della procura generale.
E’ pur sempre un processo in cui mancano prove concrete, ad esempio l’arma del delitto, mai ritrovata.
Eppure di tutti i processi indiziari degli ultimi anni questo è uno di quelli in cui tutto è sembrato andare nella direzione del Binda. Certo quando in un processo manca la cosiddetta pistola fumante, o un elemento oggettivo sperimentale da mettere sul tavolo in tutti rimane un senso di insicurezza perché una condanna penale all’ergastolo dovrebbe essere emessa solo oltre ogni ragionevole dubbio.
E allora?
Intanto va ricordato che in caso di omicidio non si può evitare un processo anche solo indiziario. In questo caso poi c’era una esigenza di verità e di giustizia che nel caso della povera Lidia Macchi era stata perseguita da parte della famiglia con vigore sacrosanto. Se prendiamo i casi Yara Gambirasio o Sarah Scazzi questo processo è quello che secondo me ha visto più elementi correlati che possono dire che questa condanna è stata emessa con grande ragionevolezza.
La magistratura con la distruzione del dna si è comportata in modo gravissimo, è d’accordo?
La distruzione del dna non la esiterei a definire inquietante, certamente senza la distruzione di quella prova il processo avrebbe avuto un altro corso.
Come giudica il personaggio Stefano Binda?
Come dicevo, le sue caratteristiche suggeriscono la sua colpevolezza.
Perché?
Il suo atteggiamento verso le donne, la sua misoginia, il comportamento sessuofobico sublimati in quell’atteggiamento poetico delirante vanno nella direzione concordante degli altri elementi.
Dunque sentenza indiziaria e va bene così?
Rimangono un numero di dubbi non da poco, ma non necessari a neutralizzare il fatto che gli indizi abbiano portato alla sua condanna.
Lei invece, Steffenoni, cosa pensa della condanna all’ergastolo del Binda dopo un processo basato solo su indizi e non prove concrete?
E’ un processo che mi ricorda il cold case di via Poma a Roma, dove a distanza di decenni si è voluto ritirare fuori un presunto omicida che era poi il fidanzato della vittima. In quel caso come in quello di Lidia Macchi la distanza temporale inquina moltissimo.
Cosa non la convince degli elementi accusatori?
Innanzitutto il tempo passato dall’omicidio e il fatto che tali elementi sono legati a interpretazione. Stiamo parlando di una perizia grafica su una poesia, la scrittura a distanza di anni cambia molto e poi era scritta in stampatello. I periti grafici avrebbero già qualcosa da dire su questo.
C’è poi il dna che è andato distrutto.
Intanto non è vero che fu il primo caso in Italia in cui venne usato, come è stato scritto; fu comunque uno dei primi casi, e gli utilizzi fatti sul caso del mostro di Firenze sono risultati viziati, non attendibili. Ma anche se avessimo ancora il dna saremmo nell’ambito della vaghezza.
Del profilo psicologico di Binda invece cosa dice?
La condanna si basa tutta solo sul profilo psicologico, cioè un caso di ossessione religiosa compatibile con atti di questo tipo. Ci sono poi le famose pagine del suo diario strappate proprio nei giorni dell’omicidio, il fatto che fosse eroinomane, gli ambienti religiosi che frequentava. Ci sono effettivamente una serie di problematiche che riguardano il soggetto. Detto questo un ergastolo a 31 anni di distanza che si basi solo su questi elementi a me fa un po’ paura come modus operandi.
Della confusione sulle testimonianze invece cosa dice? Di fatto non si è riusciti a provare che fosse davvero in vacanza quando ci fu l’omicidio.
Sfiderei chiunque a ricordarsi come sono andate le cose trent’anni dopo. All’epoca poi gli interrogatori sui ragazzi che lo conoscevano furono condotti in modo estremamente superficiale. I processi indiziari si basano su tanti piccoli frammenti, mai su un indizio sostanzioso. In questo caso siamo su indizi molto labili. In quella zona ci furono poi altri omicidi di giovani ragazze. Posso ricostruire facilmente una accusa su chiunque dopo così tanto tempo, senza voler prendere le difese del Binda.
Pensa ci siano le circostanze per ribaltare la condanna in appello?
Assolutamente sì, se fossimo un paese in cui non si giudica in modo emozionale ma probatorio certamente. Dato lo stato attuale dei processi di primo grado ho qualche dubbio.
(Paolo Vites)