Una settimana fa sono stato chiamato in casa di una famiglia in difficoltà. Il padre stava morendo, infatti era proprio alla fine, se pure ancora sveglio e consapevole di tutto. Sua moglie lo assisteva con giudizio, ma fra i figli c’era chi era più turbato, e diceva che forse era meglio sedare il padre profondamente, mettendolo in coma artificiale, per evitare qualunque possibilità di sofferenza. Si respirava un’aria veramente piena di angoscia. Io ho detto che per me la cosa più importante a quel punto della strada di quell’uomo non era diversa da quello che si era fatto fino ad allora: mentre si faceva il necessario per evitargli sofferenze, era importante accompagnarlo, lasciando che i loro incroci di sguardo amorosi formassero la strada alla vita eterna, come avevano sempre fatto.
Questo mi viene in mente pensando al caso di Alfie Evans, il bambino di 23 mesi di Liverpool ricoverato in ospedale più di un anno fa dietro insistenza dei giovanissimi genitori, Tom (21 anni) e Kate (20), convinti, contro il giudizio dei medici, che qualcosa non andava. Avevano ragione i genitori: Alfie ha cominciato a perdere colpi e una serie di attacchi simil-epilettici ha distrutto in parte il suo cervello compromettendo la sua respirazione. I medici non hanno mai diagnosticato la causa di questo declino, non di meno nel dicembre scorso l’ospedale ha comunicato la sua intenzione di staccare il bambino dal respiratore. Alfie, anche se in un stato molto compromesso, comunque risponde agli stimoli, si muove ed emette suoni in modo indipendente. I genitori non sono stati d’accordo con la decisione, vedendo che comunque le condizioni del bambino erano stabili e non in crisi. Cosi è cominciata un’odissea fra i tribunali inglesi in cui l’ospedale e i giudici hanno dichiarato di difendere il “best interest” e i diritti del bambino contro i genitori.
Il caso ha raggiunto l’apice con la respinta dell’istanza dei genitori da parte di varie corti d’appello. Mercoledì scorso, con l’aiuto di un gruppo di giornalisti cattolici italiani, Tom è stato ricevuto da papa Francesco per venti minuti di colloquio e poi, all’udienza generale, il Papa ha lanciato un appello chiedendo che i genitori di Alfie siano ascoltati. Ha successivamente chiesto che l’ospedale lasci andare il bambino per essere accolto dall’ospedale del Vaticano, il “Bambino Gesù”, disponibile a trasportarlo e a curarlo.
Lunedì 23 aprile il giudice ha ordinato il distacco delle macchine, ma Mariella Enoc, presidente del “Bambino Gesù”, era a Liverpool con in mano un passaporto italiano per Alfie a cui era stata concessa la cittadinanza italiana. Dopo un’altra sentenza del giudice hanno staccato Alfie dalla macchina dichiarando che non sarebbe sopravvissuto più di 15 minuti, ma solo dopo che il padre Tom non avesse impedito la somministrazione di un fortissimo farmaco che avrebbe soppresso il respiro del bambino. Adesso, dopo due giorni e mezzo, Alfie è ancora vivo e respira da solo. Un nuovo appello ha prodotto solo un ulteriore rifiuto di permettere il trasloco del bambino. Per il sistema inglese quel bambino deve morire.
Io, personalmente, trovo difficoltà nel mantenere la calma davanti ad una tale ostinata determinazione da parte del potere ad uccidere un bambino. Alfie, cittadino italiano, deve morire per non mettere in cattiva luce il sistema inglese. Le sue condizioni, pur gravi, sono stabili, e respira, con difficoltà, da solo. Ma non può uscire ed essere accudito dal Vaticano.
I suoi genitori desiderano donargli ancora i loro sguardi d’amore, la vera strada alla vita eterna. Ma questo non è accettabile per il potere inglese.
Che cosa mi permette di guardare a questa situazione non con profonda rabbia ma con stupore e gratitudine? In primo luogo i genitori Tom e Kate. Il loro coraggio, la loro costanza, il loro equilibrato appello alla difesa della vita di loro figlio mi richiamano alla fede come la vera strada che ci porta innanzi, al contrario della paura e dell’odio. Per il potere il “best interest” di Alfie è non vivere una vita compromessa ed all’apparenza inutile, e perciò meritevole di morte. Per i genitori, gli sguardi d’amore rendono questa strada, per quanto destinata ad essere breve, piena di meraviglia.
In secondo luogo sono tutti i cuori inglesi, americani e italiani scossi e ridestati da questo bambino che finora non intende obbedire all’ordine di morire, a convincermi del bene che vince anche in queste circostanze. Quante persone si stanno interrogando sul valore della vita, dell’amore come rischio che vale la pena di essere vissuto. La generosa opera di certi italiani e l’accoglienza del Papa mi confermano che la risposta al mostruoso No alla vita che viene dal governo inglese è un umile e bisognoso Sì ad accogliere la vita scomoda che mi circonda e che è anche la mia.
Quella famiglia di cui ho scritto all’inizio ha accolto il mio invito a continuare con un rapporto d’amore sofferto e pieno di meraviglia. Al funerale una familiare mi ha ringraziato per le mie parole, perché le hanno dato coraggio e hanno permesso di avvicinare anche sua figlia a questa condivisione piena di stupore, quando prima se ne stava lontana. Ringrazio Tom e Kate, che mi stanno donando questo stesso coraggio di stare davanti alla sofferenza ed essere meravigliato.