“Alfie non ha più bisogno di terapie intensive, ormai. E’ steso nel lettino con un litro di ossigeno che gli entra nei polmoni (dalle bombole portatili) e per il resto respira da sé. Alcuni dicono che sia un miracolo, ma non è un miracolo, è stata una diagnosi sbagliata” ha detto il padre di Alfie Evans in una delle sue ultime dichiarazioni. L’accanimento con cui giudici e i medici dell’Alder Hey Children Hospital di Liverpool perseguono la via della soppressione del bambino “nel suo miglior interesse” ha innumerevoli possibili spiegazioni. Limitandoci a quelle che suggerisce intelligentemente Thomas Evans, siamo davanti a una chiara negazione del diritto della libertà personale di scegliere cure e medici, imponendo dall’alto una decisione che è decisamente la negazione di questa libertà. Così la pensa Cesare Mirabelli, giurista, già presidente della Corte costituzionale, da noi intervistato: “Il concetto di miglior interesse nel caso di un minore è la valutazione che si fa quando ci si sostituisce alla volontà dei genitori. Chi è che ha il dovere prima che il diritto di manifestare questa valutazione? I genitori naturalmente”. Ecco cosa ci ha detto.
Il concetto di “best interest” con l’aggiunta della dichiarazione che “è evidente che il bambino non potrà apprezzare nulla della vita” è un po’ il punto su cui ruota il caso di Alfie Evans. Per i giudici e i medici non ci sono possibilità di miglioramento del suo stato cerebrale per cui è inutile curarlo. Cosa ne pensa?
Prima di parlare di miglior interesse del minore c’è secondo me un fatto ancora più importante su cui realmente ruota il caso in questione. Qui viene lesa dai giudici inglesi la libertà della persona di scegliere il luogo di cura. Innanzitutto c’è un diritto di cura universale, come il diritto alla vita e alla salute, che è riconosciuto da convenzioni internazionali, previsto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, previsto anche dalla carta di Nizza, la Carta dei diritti fondamentali dell’uomo riconosciuta dall’Unione Europea. Questo diritto certamente non può essere imposto quando si prestano terapie o cure che siano futili, un inutile accanimento terapeutico. Potrebbe anche essere una valutazione esatta nel caso di Alfie, ma il tema è ancora un altro.
Quale?
Può il medico o il giudice disporre che i genitori non possano portare il minore in un luogo in cui può essere curato? Il miglior interesse è sì una valutazione che ha qualche margine di discrezionalità, ma in questo caso la scelta è la tra vita e la morte.
Alfie ha dimostrato che può sopravvivere anche senza macchinari, dunque non è il caso di questa scelta. I giudici però hanno anche dichiarato che quella di Alfie sarebbe una vita “futile”.
E’ una visione utilitaristica della vita, nella quale la società o il giudice si fanno arbitri di valutare positivamente solo la qualità di vita che ritengono accettabile. Ma la decisione deve esprimere una tutela della vita o comunque rimettere alla persona la scelta. Oggi è definita libertà la decisione di porre fine alla vita quando si giudichi inadeguata la qualità della vita stessa, ma nel caso di Alfie viene negato l’altro versante della libertà: i genitori ritengono che la vita debba essere mantenuta a prescindere dalla qualità della vita, e invece viene decretata la morte.
A proposito delle convenzioni internazionali da lei citate, può una singola nazione come in questo caso il Regno Unito perseguire una propria via “nazionalistica” alle cure?
La linea scelta dai giudici è una linea molto sottile, di sostituzione della volontà dei genitori sul presupposto che la loro scelta non è nell’interesse del minore, cioè proseguire le cure o trasportarlo altrove. Sulla intrasportabilità del bambino, come hanno decretato i giudici, il giudizio va rimesso a chi nell’ipotesi ne propone l’accoglienza, non a loro.
In questo caso abbiamo l’ospedale Bambin Gesù che si è proposto di prendersi in carico la responsabilità di ogni aspetto, anche la cura.
Infatti viene esclusa un’opportunità e imposta una limitazione della libertà della persona.
Che ne pensa della decisione di dare la cittadinanza italiana ad Alfie? I giudici inglesi sembra si siano indispettiti non poco, è stato un bene o ha aggravato le cose?
La ritengo una concessione umanitaria, uno strumento di protezione e un titolo per essere curato in Italia. Chi dà la cittadinanza si assume tutti gli oneri. Nel nostro paese non c’è una valutazione utilitaristica della vita come in Inghilterra, viene curato chiunque prestando ogni terapia. La proporzionalità riguarda il giudizio medico. Ecco perché è un terreno alquanto complicato. Se impianto il pace-maker a un 90enne debilitato rispetto al quale l’intervento porterebbe a una sopravvivenza di brevissimo periodo, la cura è sproporzionata.
Nel caso di Alfie?
In questo caso va giudicata la sproporzionalità nel mantenere un sostegno vitale, ma anche qui il nodo non è tanto valutare il giudizio dato dai medici ma consentire alla persona di esprimere la propria libertà andando altrove dove ci sarà un nuovo giudizio che deciderà se è accanimento, se esiste una cura o anche un accompagnamento sano e buono al bambino per quanto resterà della sua vita. Ci possono essere situazioni nelle quali la morte sopraggiungerà, ma non per questo non ci sono terapie per mantenere in vita il malato il più a lungo possibile attenuandone la sofferenza e garantendo la sua dignità.
Del divieto di trasportarlo in Italia che ne pensa?
C’è una libertà di scegliere il luogo di cura? Dove e da chi deve essere valutato? La scelta del medico è personale, dunque quello che viene impedito è l’esercizio di una libertà. La responsabilità se l’assume la persona e la struttura che se ne fa carico. Qua i medici dicono: potrebbe morire nel trasporto, l’alternativa che sostengono è: facciamolo morire prima.
(Paolo Vites)