Alfie Evans è dunque morto. Che cosa si può dire il giorno dopo in cui la scelta degli organi giuridici di uno stato di diritto ha deliberatamente determinato la morte di un innocente? Che cosa si può dire il giorno dopo in cui due genitori si sono visti delegittimati nei loro diritti più profondi di cura verso loro figlio da quella stessa società che fa della libertà e dell’autodeterminazione individuale il suo unico cardine di valutazione? Che cosa si può dire di medici che fissano il miglior interesse di Alfie in una loro misura, indisponibili a ridiscutere le loro valutazioni nonostante l’evidenza empirica di tanti dati che non tornano? Che cosa si può dire dopo che tutto il web ha dibattuto, si è scontrato, ha contribuito ed alimentato un così grande clamore dinnanzi ad una vicenda tanto assurda quanto disumana? Che cosa si può dire di più di quello che ha detto il Papa, toccato da questi fatti e in prima linea esposto nell’attivare ogni canale umanitario e politico di soluzione?
Niente. Il punto di questa vicenda è che, arrivati qui, non si può più dire niente. Solo rispettare il dramma di un epilogo che per tanti poteva non essere scontato, ma che c’è stato. E lascia l’amaro in bocca. Eppure, dire non è l’unica opzione possibile: si può anche guardare.
Guardare tutta la distanza tra una ragione chiamata a ricercare sempre il bene e una ragione di medici e giudici che invece fissa il perimetro del bene e si trincera dietro la propria misura.
Guardare tutta la distanza tra le posizioni più a favore della vita e il bistrattamento di tante altre vite abbandonate ed emarginate nella nostra società intrisa di cultura dello scarto.
Guardare tutta la distanza tra una guerra fatta di siti internet, di proclami, di campagne web e la guerra che in tanti sperimentiamo nella vita quotidiana ogni qual volta ci accorgiamo che quelle battaglie non incidono, non cambiano, il nostro modo di guardare la nostra famiglia o i meccanismi che regolano la società.
Guardare la distanza che c’è tra la fede certa di tanti e l’impotenza palpabile altrettanto certa di queste ore.
C’è quindi uno spazio in cui ci sarebbero tante cose ancora da dire ed è lo spazio in cui si constata che in queste settimane è stato fatto molto, moltissimo, ma tutto questo non è bastato. Ma allora, ci si può chiedere, che cos’è che serve? Che cos’è che cambia? Che cos’è che può accorciare tutto l’abisso che c’è tra la nostra vita e le nostre battaglie? Che cos’è che può cambiare questa cultura di morte?
Di Alfie Evans, di questo piccolo martire, non si può davvero dire più nulla, solo pregarlo. Ma forse di noi e del nostro tempo, invece, ci sono ancora un sacco di cose di cui parlare. Un sacco di domande da affrontare, a cui iniziare a rispondere. Domande che, a dispetto dell’opinione di tanti, si presentano in queste ore come le più drammatiche, le più decisive.