I social nei monasteri? Dove non entrano televisione e giornali, se non forse Osservatore Romano e Avvenire, perché mai dovrebbero essere permessi Facebook, Twitter e Instagram? Toccherà pensarci con senno, e così ha fatto l’istruzione Cor Orans, Un cuore che prega, firmata dalla Congregazione per gli istituti di vita consacrata, rivolgendosi a 37970 monache di clausura sparse come lucciole per i continenti, nella Costituzione apostolica dedicata alla vita contemplativa femminile. Ovvero, il Papa (questo sul dire in soldoni “apostolica”) ragiona sull’utilità e i rischi dei social media tra madri e sorelle dedite a una vita fuori dal mondo. E saggiamente chiede sobrietà e discrezione, per preservare il silenzio e il raccoglimento che sono scelta di vita e vocazione.
Ci si domanda perché sia stato necessario intervenire: eppure un occhio men che distratto ben vede su Facebook che i conventi si aprono, parlano, per invitare a visitarli, godere della loro compagnia e preghiera; per chiamare i giovani a vedere di persona cosa significa scegliere una vita diversa, tutta dedita soltanto a Dio. Qualche volta chiamano con particolare insistenza, tanto da apparire come succursali del fiorente turismo religioso. Qualche volta intervengono con giudizi netti sugli accadimenti del mondo, prendendo posizione, con scarsa prudenza; soprattutto ci si domanda se i profili siano soltanto pubblici, visitati e permessi da chi ha il compito di essere autorità sulle monache, o le più intraprendenti sviino maglie troppo strette dando spazio alla loro curiosità , alle loro amicizie, reali e virtuali, cercando in rete uno sfogo, una via d’uscita da realtà forse un po’ asfittiche e apparentemente anacronistiche.
Il punto è il rapporto col mondo: fuori dal mondo non significa fuori del mondo. Chiunque abbia vissuto momenti di accoglienza in un monastero ricorda lo stupore per donne di fede assorte nei loro mille lavori, in un ritmo di vita armonico scandito dalla liturgia delle Ore, e tuttavia così presenti, partecipi, comprensive di quel che accade a uomini e donne del nostro tempo, perché la preghiera va indirizzata, coscienti dei bisogni e dei drammi reali. Spesso accorriamo alla loro saggezza e tenerezza proprio per capire di più, per essere confortati e sostenuti nelle nostre scelte quotidiane. Nulla di strano dunque che i social facciamo vedere la bellezza di una scelta che sembra ardua, e invece mostra volti felici e in pace. Nulla di strano se è strada per non essere estranei, e accorgersi di una proposta affascinante e totale, di cui abbiamo tanto bisogno. E infatti sono proprio le congregazioni di clausura che soffrono meno la crisi generale delle vocazioni, femminili e maschili. C’è un limite, l’autoreferenzialità, o peggio la scappatoia da una solitudine che non si regge.
Non sono i social ad aiutare, come non aiutano i nostri ragazzi incollati allo smartphone e incapaci di afferrare la vita, senza passare per schermi virtuali. Che offrono una realtà distorta, spesso volutamente, svagano, inducono in tentazione. Nessun moralismo, è esperienza comune. Dio passa certamente anche dai social, se una parola buona ci coglie di soprassalto, un discorso, un testo, una storia che allarga cuore e ragione. Ma sono eccezioni. E la soluzione è ancora una volta in un legame di fiducia che nasce da un rapporto educativo: chi ci è maestro sa indicarci il bene, gli affidiamo la vita, vale la pena seguirlo.
Le regole degli ordini religiosi sono, dovrebbero essere, sponde, occasioni, non costrizioni e condizioni, una risorsa, non un impedimento. Così chi ha detto sì ha creduto. Essere presenti al mondo non significa mai cedere al mondo, e la determinazione, la serena certezza di tante sorelle e madri sono un segno per ciascuno di noi.
Curioso: oggi il tribunale che stabilisce i paletti entro cui contenere lo straboccante ego di Fabrizio Corona, fresco fresco di carcere, lasciano aperta la porta dei social. Più prudentemente, avrebbero dovuto chiedere anche a lui sobrietà e descrizione. Che temiamo siano parole a lui poco note, con suo grave danno.