Un coup de théâtre l’ultimo atto nella dolorosissima e controversa vicenda cilena. Ieri mattina, alla fine della tre giorni di confronto in Vaticano su quanto accaduto negli ultimi decenni nella Chiesa del paese latino-americano, tutti i 32 vescovi del Cile hanno rassegnato le dimissioni. Un fatto senza precedenti, un’azione commisurata a quella che Papa Francesco in una lettera resa nota da Antenna 13, emittente cilena, consegnata dal pontefice dopo il primo incontro con l’episcopato sotto accusa, ha definito “ferita aperta, dolorosa e complessa”, una ferita “che per lungo tempo non smette di sanguinare nella vita di così tante persone e, quindi, nella vita del popolo di Dio”.
Toni durissimi che non si limitano al caso iniziato negli anni 80, quando uno dei sacerdoti più popolari e carismatici del Cile, padre Fernando Karadima, iniziò ad abusare di ragazzi fragili, per lo più adolescenti, nella parrocchia del Sacro Cuore di El Bosque di Santiago. Le sue malefatte, a lungo coperte o insabbiate grazie all’influenza e alla fama di cui godeva presso le gerarchie ecclesiali e l’alta borghesia della capitale, sono all’origine del più grave scandalo che abbia mai investito la chiesa cilena. Una tempesta che ha dissipato il credito di autorevolezza e moralità costruito eroicamente da parte del corpo ecclesiale durante gli anni della dittatura e che ha finito per investire anche il recente viaggio di Francesco nel paese.
E’ proprio nella visita di gennaio che il bubbone, coperto e da connivenze e ipocrisie, è scoppiato. La presenza di Francesco ha fatto da detonatore ad una situazione già gravemente compromessa. Nonostante le denunce delle vittime fossero iniziate nel 2003, portando anche ad una condanna nel 2011 del sacerdote che ha formato almeno due generazioni di preti cileni da parte della Congregazione per la dottrina della fede, alti esponenti ecclesiali e almeno 4 vescovi cresciuti sotto la sua ala protettrice continuavano a minimizzare la vicenda, informando in maniera parziale e scorretta il Papa sulla verità dei fatti.
Ma Francesco non è uno che si possa gabbare. L’isolamento avvertito durante la visita in Cile, le proteste di piazza, l’esperienza traumatica vissuta nei tre giorni passati nel paese lo hanno portato a prendere l’iniziativa. Un’indagine sullo scandalo affidata a mons. Charles Scicluna, l’arcivescovo di Malta, ex promotore di Giustizia vaticano oggi presidente del Tribunale dei Ricorsi, il più duro esponente della lotta alla pedofilia, insieme alla richiesta di perdono alle vittime per aver sostenuto mons. Juan Barros Madrid, vescovo di Osorno, collaboratore e figlio spirituale di Karadima, trasferito proprio dal pontefice alla diocesi nel sud del Cile nonostante le tante accuse di complicità e connivenza.
Poi la cronaca dei giorni scorsi. La convocazione in Vaticano, la richiesta di riflessione e preghiera, le dichiarazioni dei vescovi cileni, contriti e preoccupati, finalmente disposti all’autocritica e consapevoli degli errori e omissioni compiute. E poi il finale, che si spera sia un inizio. Le dimissioni di massa. Che non convincono completamente. Perché hanno il sapore di una resa interessata, di un’azione collettiva che supera le profonde divisioni del corpo episcopale per scaricare sul povero Francesco la responsabilità di scelte e misure. Il rischio è che tutti siano colpevoli e allo stesso tempo innocenti, vittime di “un sistema”, che proprio Francesco mette sotto accusa, di ricatti, bugie e complicità. Rimettersi alla decisione del pontefice dopo anni di miopia sulle reali condizioni della Chiesa cilena sembra un modo per fuggire ancora una volta davanti al problema. Un segno ulteriore, semmai ce ne fosse bisogno, di immaturità.
L’aspetto positivo è che al di là delle sincere o meno intenzioni, tutto questo va nella linea del papa: Francesco “commissaria” la Chiesa cilena, assumendo su di sé una croce pesantissima e il carico di decisioni e scelte che segneranno il futuro della testimonianza cristiana nel paese latinoamericano. Tutto riparte da lui.