Una persecuzione che ha pochi esempi nella storia della giustizia italiana, quella contro il generale Mori, esattamente da 15 anni, completata adesso con una condanna in primo grado a 12 anni di carcere dalla Corte d’Assisi di Palermo nell’ambito del cosiddetto processo stato-mafia che di fatto non ha cavato un ragno dal buco, talmente impostato come è su dichiarazioni contraddittorie di vari pentiti e su un teorema della magistratura stabilito a tavolino, al di là di ogni ragionevole dubbio. Mario Mori, già comandante dei Ros e direttore del Sisde, esattamente come altri suoi noti colleghi, è stato trascinato nel fango con l’accusa di aver collaborato con Cosa Nostra. Dal 1978 è invece uno degli uomini di punta della lotta al terrorismo, portando a termine arresti importantissimi come quello di Barbara Balzarani e molti altri appartenenti alle Brigate Rosse. Trasferito a Palermo è tra i fondatori del Ros che condurranno la cattura di Totò Riina. E’ proprio qui che Mori viene accusato insieme a Sergio De Caprio, l’uomo che fisicamente arresta Riina con l”accusa di aver ritardato la perquisizione del covo del boss, entrambi poi prosciolti. Mori viene poi accusato di aver favorito l’altro boss mafioso Provenzano, accusa da cui nel 2013 viene assolto in via definitiva.



LE ACCUSE DI INGROIA

Ma non finisce qui: nel luglio 2012 il procuratore aggiunto Ingroia nell’ambito delle indagini stato-mafia lo accusano nuovamente per concorso esterno in associazione mafiosa e violenza o minaccia a corpo politico dello stato, quindi il 20 aprile 2018 viene condannato. Adesso, per la prima volta dopo la sentenza, Mori dice la sua, come riprota oggi l’agenzia Ansa: “Non accetto di essere considerato un traditore dello Stato, un fellone come si diceva una volta e continuerò a lottare fino in fondo certo che alla fine vincerò. Sono partito dalla parte della giustizia – ha spiegato Mori – e mi trovo dall’altra parte: questo è doloroso per un ufficiale dei carabinieri”. Dice che continuerà a combattere sicuro di essere nel giusto, aver rispettato le leggi e la sua etica professionale: “Da 15 anni faccio l’imputato e sono incazzato, ma sono un agonista, ho bisogno di un nemico, le battaglie mi danno forza”. Parlando a Radio radicale ha ricostruito la sua vicenda che, dice, inizia nel 1989 quando si rompe il rapporto tra procura di Palermo e Ros.

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