I dati diffusi dall’Agenzia italiana per il farmaco, rielaborati in modo sistematico dall’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa, raccontano che negli ultimi cinque anni il consumo di antidepressivi ha coinvolto circa il 20 per cento della popolazione: un italiano su cinque in questo lasso di tempo soffre o ha sofferto di depressione.
Ammetterlo significa infrangere una sorta di tabù sociale che colpisce con una sorta di stigma tutti coloro che passano per il lungo calvario delle malattie psichiatriche. Sulla depressione esistono molte leggende e poche verità; molto è lasciato all’immaginario collettivo. Al contrario di quello che comunemente si pensa, può essere o diventare depresso chiunque abbia sperimentato in modo forte e persuasivo un bene, una bellezza, una situazione quasi magica di felicità o comunque di benessere. È in questo contesto che si manifestano segnali, che possono essere parole, gesti o sguardi di altri che portano all’orrendo pensiero che il bene assaporato possa non esserci più, possa non essere “per me”: si fa largo l’intima convinzione che io possa essere escluso dalla gioia, dalla vita.
È paradossale come a questo punto una parte di noi prenda il sopravvento e cominci a comportarsi come se quel giudizio di esclusione, di solitudine e di dannazione dato dalla mente, fosse vero. Una parte della nostra umanità si fa carico, insomma, di eseguire la sentenza che la mente ha già deciso e comincia a provocare azioni e comportamenti che tendono a convalidare e a riconfermare che la vita così come la si è una volta vissuta sia finita, perduta, non ci possa essere più. È un vortice in cui si instaurano schemi di comportamento che alimentano ed ampliano la condanna pronunciata dalla mente.
È evidente che l’inghippo in questo processo è triplice: anzitutto l’identificazione della felicità con l’unica felicità fino a quel punto giudicata come tale; poi la fretta con cui si liquidano i gesti, le parole o gli occhi che hanno provocato la battuta d’arresto, il turbamento; infine la proiezione mentale che porta a parteggiare per la condanna e che la favorisce e inizia a farla scontare. Identificazione, fretta e proiezione sono dunque tre tipici errori della mente che possono dar vita ad un mix capace di alterare la percezione della realtà.
È chiaro che, in un abisso così profondo, il primo antidoto è allora il contatto, il ritrovare il contatto con sé, con il proprio corpo, con la natura e con le cose. Nel contatto si comincia a sperimentare una possibilità d’uscita. Molti a questo punto del percorso si chiedono che ruolo possano giocare i farmaci, la psicoanalisi e la fede.
Sicuramente la depressione è un problema di rapporto con la realtà che viene alimentato dalle esperienze di benessere e dalle aspettative della vita: famiglia, fidanzata, carriera, successo fanno come da detonatori ad una magia che si ha paura di perdere. Niente è più sbagliato che il cercare di curarsi da soli, oppure rinchiudendosi a pensare oppure ancora alimentando, anche con pratiche religiose, la propria dimensione interiore. Se il problema è all’interno è dunque solo dall’esterno che può venire la soluzione. Il farmaco può contribuire a creare le giuste condizioni per un rapporto terapeutico e il rapporto terapeutico può contribuire a creare le giuste condizioni per rincontrare la realtà. Ed è in questo incontro, siccome la fede è il rapporto con un livello della realtà e non con un fenomeno etereo, che può avvenire il riconoscimento con una Presenza che non solo abbraccia, ma che mostra come la felicità sia qualcosa di sempre possibile, svincolata da quel primo istante di magia e di benessere da cui tutto è partito.
L’antidoto alla depressione è un rapporto, ma questo rapporto deve trovare le sue condizioni di possibilità per non essere l’ennesimo miraggio sulla via della guarigione. Un paese in cui il 20 per cento dei suoi abitanti è depresso è un paese ricco di magiche illusioni, o pesanti aspettative, ma povero di autenticità, di relazioni vere. Appare chiaro che tutte queste non sono le considerazioni di un medico, che avrebbero tutt’altro valore e tutt’altra solidità, ma sono la povera carnale testimonianza di uno che alla depressione è sopravvissuto. Di uno che, per grazia, ha ricominciato a vivere.