L’Istat, con il suo rapporto annuale, ha confermato l’allargamento del divario tra Nord e Sud del Paese in termini di economia e di lavoro. Nel 2017 la povertà assoluta si è incrementata nel Mezzogiorno, mentre si è ridotta nel Centro e nel Nord: sono quasi 1,8 milioni le famiglie coinvolte, con un’incidenza del 6,9%, in aumento rispetto al 6,3% del 2016. Cresce di pari passo il numero delle persone in stato di povertà assoluta: sono 5 milioni, con un’incidenza dell’8,3% rispetto al 7,9% del 2016. Il Mezzogiorno non segue l’andamento del resto del Paese rispetto alla crescita del mercato del lavoro: resta, infatti, l’unica ripartizione con un saldo dell’occupazione ancora negativo rispetto al 2008, con 310mila lavoratori in meno.



Oltre ai dati economici c’è anche il dato demografico che colpisce. È sempre l’Istat che nel report “Il futuro demografico del Paese”, pubblicato lo scorso 3 maggio, descrive i dati demografici previsionali fino al 2065, sostenendo che “il Mezzogiorno perderebbe popolazione per tutto il periodo, mentre nel Centro-Nord, dopo i primi trent’anni di previsione con un bilancio demografico positivo, si avrebbe un progressivo declino della popolazione soltanto dal 2045 in avanti. La probabilità empirica che la popolazione del Centro-Nord abbia nel 2065 una popolazione più ampia rispetto a oggi supera il 30%, mentre nel Mezzogiorno è nulla”.



Aggiunge ancora l’istituto di statistica che è “previsto negli anni a venire uno spostamento del peso della popolazione dal Mezzogiorno al Centro-Nord del Paese. Nel 2065 il Centro-Nord accoglierebbe il 71% di residenti contro il 66% di oggi; il Mezzogiorno invece arriverebbe ad accoglierne il 29% contro il 34% attuale”.

L’andamento demografico è probabilmente, al contempo, causa ed effetto delle difficoltà economiche: i giovani emigrano perché non c’è lavoro, la popolazione che invecchia è meno produttiva.

Purtroppo, sul Sud, si sprecano analisi, pregiudizi e promesse elettorali, ma manca una visione unitaria per non consentirgli di sprofondare ulteriormente nel baratro. Anzi, in alcuni intellettuali emerge la tentazione di liberarsi della palla al piede del Mezzogiorno, dopo che per oltre 150 anni è stato prima sfruttato nelle sue risorse (naturali, forza lavoro) e poi utilizzato dal Nord esclusivamente come un’area di mercato a condizioni privilegiate. Ne è esempio una recente intervista a Luca Ricolfi, dove il sociologo piemontese afferma: “La verità forse è difficile da dire: i cittadini del Sud hanno un’altra cultura, un’altra mentalità, altri valori, e quindi non vogliono vivere come nel Centronord. Io li capisco, e un po’ li invidio. Credo che l’unica soluzione sia concedere piena autonomia al Sud. Nessuna secessione delle regioni del Nord, ma creazione di una grande area meridionale con istituzioni, fisco e politica economica propri. Culturalmente, ma anche sul piano dell’organizzazione economico-sociale, il Centro è più simile al Nord che al Sud, dunque tanto vale che vi siano due Italie libere di governarsi come desiderano, quella del Centronord e quella del Sud, finalmente liberata dal giogo dell’unità nazionale”.



I pregiudizi su cultura, mentalità e valori della gente del Sud, espressi da Ricolfi, sono facilmente smontabili. Anche se – come in modo ironico ma allo stesso tempo drammatico ha mostrato il film di Checco Zalone “Quo vado” – molte persone al Sud sono state educate solo al mito del posto pubblico fisso, creando nel tempo una sorta di danno di tipo “ambientale”, basta guardare quanti emigrati, nelle varie epoche, provenienti dal Mezzogiorno abbiano fatto fortuna al Centro, al Nord e all’estero, contribuendo, in particolare al settentrione, a creare quell’Italia laboriosa, tenace e produttiva di cui spesso, forse abusandone, ci vantiamo.

Ma l’idea di fondo, preoccupante, è quella di un Sud ormai sedotto, o forse sarebbe il caso di dire violentato, e poi abbandonato. E questo è inaccettabile.

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