Il 9 maggio 1993, quando Papa Wojtyla lanciò da Agrigento il suo grido accorato per la conversione dei mafiosi, gran parte dei giornalisti accreditati avevano lasciato la Valle dei Templi, con la cartella del discorso ufficiale. Ma in quel testo, diffuso dall’ufficio stampa vaticano, mancava il grido sgorgato dal cuore: “Convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio”.
Giovanni Paolo II aveva poco prima incontrato gli anziani genitori del giudice Rosario Livatino, vittima della mafia, e gli era venuto spontaneo, a fine celebrazione, collegare la bellezza dei luoghi e il richiamo alla Concordia di uno dei Templi con la brutalità e la violenza della mafia.
Oggi, a 25 anni da quel discorso che scosse il mondo e segnò un momento di chiarificazione della distanza incolmabile che separa la Chiesa dalla mafia, i vescovi siciliani ricorderanno solennemente quell’evento, evidenziando le conseguenze dell’appello di Wojtyla nell’azione pastorale quotidiana.
Una fede cristiana “pallida”, disincarnata, incapace di dare forma nuova alla vita rischia di essere un contenitore facilmente strumentalizzabile, dai mafiosi in primo luogo, ma anche dai tanti appartenenti al mondo dell’ateismo pratico. Gli uni continuano ancora a fare il segno della croce prima di ammazzare o a richiedere un posto d’onore nelle processioni o nei riti religiosi. Gli altri, magari, fanno tranquillamente parte di circoli parrocchiali pur continuando a pagare tangenti, a sfruttare i subalterni o a rifiutare poveri e migranti. La logica mafiosa e la pratica consumistica della fede trovano entrambe eccellente terreno di coltura nella separazione fra credere e appartenere. Alcuni pensano di appartenere alla Chiesa, senza credere e praticare ciò che essa insegna; altri professano formalmente verità di fede senza appartenere alla Chiesa, adattando, anzi, quelle verità ai propri comodi e piegandole ai propri progetti.
L’appello di Wojtyla ad Agrigento chiamava in causa la fede perché cambiasse veramente la vita (dei mafiosi, ma anche dei cristiani della domenica) e procurasse — come il Papa ribadì nel 1995 a un gruppo di fedeli siciliani — un “vigoroso impegno di proseguire nello sforzo di dare un volto rinnovato” alla società. Quell’appello, inoltre, segnava un’incompatibilità fra vita di fede e pratiche (mafiose e non) ostili ad essa.
Solo così si capisce perché la mafia reagì pesantemente al grido di Wojtyla, scegliendo di dare un segnale inequivocabile: l’uccisione di un parroco, don Pino Puglisi, che non si era distinto nelle grandi manifestazioni antimafia, ma che lottava strenuamente per ridestare nei bambini e nei giovani il desiderio di una vita bella e giusta e, in questo modo, toglieva manovalanza all’inferno delle cosche. La mafia, nell’esperienza di don Puglisi, era incompatibile con il Vangelo proprio perché essa precludeva ai giovani la possibilità di desiderare cose grandi e li chiudeva nel recinto di una vita infernale, mossa solo dal dovere, cioè dall’obbedienza cieca agli input dei boss.
Oggi, a 25 anni dall’appello di Agrigento, forse non c’è più una mafia stragista. C’è, però, una mafia che utilizza il virus della corruzione, abbondantemente presente nella società italiana, per continuare a portare avanti i propri loschi affari.
Per questo l’appello di Wojtyla alla conversione, rivisitato dal documento che i vescovi siciliani diffonderanno oggi, assume una straordinaria attualità. Purché si abbia l’onestà di prenderlo sul serio. Anche oggi, infatti, tanti potrebbero dire — come quei giornalisti che lasciarono la Valle dei Templi prima della fine della cerimonia —: “queste cose le conosciamo già”.