“Lo stupro non è un crimine violento”. Lo dice una ex leader del femminismo più impegnato degli anni 70, la australiana Germaine Greer, inevitabilmente suscitando forti polemiche. Quindi niente carcere, ma una “R” che sta per “raper”, stupratore, tatuata su una guancia in modo da riconoscerlo e condanne ai servizi sociali. La donna poco prima di compiere 19 anni, fu stuprata ma non denunciò mai il violentatore perché, dice, “non ero abbastanza arrabbiata per farlo”. Ne parla nel suo nuovo libro che si occupa proprio dell’argomento intitolato “On Rape”, a proposito dello stupro: chiede l’abolizione del reato in cambio di un ampliamento dei reati sessuali di gradi diversi.



A proposito degli stupratori il dibattito sulle eventuali pene è sempre aperto in merito al tipo di condanna. C’è chi, come i leghisti (ma adesso che sono al governo chissà se lo chiederanno ancora) ha sempre chiesto la castrazione chimica in modo che non possano fare più gesti del genere, il che sarebbe come dire che a un omicida bisognerebbe tagliare le mani in modo che non possa più impugnare una pistola o un’arma contundente. Ci sono, e non sono pochi, gli stupratori che vengono internati in ospedali psichiatrici invece che in carcere. Il ragionamento della Greer appare alquanto superficiale: è vero che il carcere in ultima istanza ha lo scopo di riabilitare e rieducare chi ci finisce e poche volte ci si riesce, ma la violenza sessuale ha motivazioni estremamente diverse tra chi la compie. Ad esempio, vi fidereste a mandare i vostri figli a giocare ai giardinetti dove si trova uno stupratore condannato a tagliare l’erba e tenere pulito il prato? Appare una visione alquanto ambigua e pericolosa.

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