NEW YORK — Ci risiamo. Dopo un breve periodo di (apparente) tregua riprende la lotta a muso duro tra il presidente Trump ed il mondo dello sport professionistico americano. La questione dell’inginocchiarsi durante l’inno nazionale, l’atto di protesta messo in scena durante il campionato scorso da alcuni giocatori di football, teso a sensibilizzare il mondo intero rispetto all’immutabile dramma delle discriminazioni razziali, ad un occhio straniero potrebbe sembrare uno spunto pretestuoso per sputarsi veleno e magari venire pure alle mani. Se non fosse che qua inno nazionale e bandiera affollano la vita di tutti i giorni, sportiva e non, con una sacralità peculiare. Mettere in discussione inno e bandiera, o anche soltanto come in questo caso il comportamento da tenere di fronte a questi due simboli dell’americanità, odora inevitabilmente di antipatriottismo, induce al sospetto, e genera astio se non feroce ostilità.



Possiamo tranquillamente affermare che le parti in gioco — uomini di sport e presidente — né si amerebbero né si stimerebbero a prescindere dalla querelle sull’atteggiamento da avere durante l’esecuzione del National Anthem. C’è una ostilità “a priori”, un fastidio, quasi una repulsione reciproca ed una sorta di sorda rabbia di cui entrambe le parti non esitano a far sfoggia in maniera molto infantile, scambiandosi torti non appena possibile. Possiamo anche discutere se inginocchiarsi durante l’esecuzione dell’inno sia o non sia offensivo nei confronti del proprio paese e di coloro che hanno dato la vita per i suoi ideali, ma per la maggior parte degli atleti Trump è un uomo meschino ed indegno “a prescindere”, e per Trump questi suoi detrattori dai campi di gioco sono solo degli ingrati, vili traditori dell’amor patrio, anche in questo caso “a prescindere”.



La National Football League (Nfl), la lega professionistica del football, ha recentemente cercato di rabberciare col nastro adesivo di un compromesso la questione che va riemergendo con l’appropinquarsi della stagione agonistica. In sostanza la Nfl dice ai suoi giocatori: “Hai dei problemi nei confronti del tuo paese? Non ti va di ascoltare l’inno nazionale stando su, diritto come un fuso a capo scoperto e mano al cuore? Allora stattene nello spogliatoio e vienine fuori quando è ora di giocare”. Ma come tutti sappiamo, quando la buona volontà è assente, quando l’unica intenzione, l’unica soddisfazione è quella di prevalere su chi la pensa diversamente, il compromesso non interessa. 



Così si arriva alle ultime uscite pubbliche, agli ultimi voltafaccia stentorei di questi giorni. Da una parte Lebron James e Stephen Curry che mentre si sfidano sul campo delle finalissime Nba non perdono l’occasione per far sapere a tutti che se vincessero, in visita dal presidente non ci andrebbero di sicuro. Andare a trovare il presidente è tradizione da oltre mezzo secolo. Il team che vince il campionato di uno dei grandi sport americani (baseball, basketball, football e hockey) ad un certo punto si ritrova alla White House per una celebrazione dell’indissolubile vincolo tra sport e patria. Ma con Trump al timone la storia è cambiata in fretta. Già l’anno scorso i Golden State Warriors per voce del loro capitano avevano fatto capire le loro intenzioni. Al che Trump — ragazzo a dir poco vendicativo — aveva cancellato d’ufficio la visita invitando i californiani Warriors a starsene a casa. E così il presidente ha fatto ancora cancellando la visita dei Philadelphia Eagles, vincitori del Superbowl 2018. Alcuni giocatori avevano annunciato che dal presidente non sarebbero andati mai e poi mai, e cosi Donald ha mandato tutti a quel paese annullando la visita due giorni prima dell’evento.

Così la terra dei liberi trova il modo di trasformare la terra dei campi da gioco in terreno di battaglia.

Nessun vincitore, tutti sconfitti, intenti come siamo a fare un altro passo verso la riduzione delle nostre aspirazioni a schieramenti.

God bless America.