L’Aquarius è ferma. La Spagna del nuovo premier socialista Pedro Sánchez si è offerta di accogliere nel porto di Valencia la nave di Sos Méditerranée e Mdf, 629 persone a bordo e un caso politico senza precedenti, ma l’equipaggio sostiene che il viaggio non è sicuro, anche a causa del meteo in peggioramento. L’Unione Europea tace, la Chiesa italiana prende posizione con un tweet del cardinale Ravasi — “Ero straniero e non mi avete accolto (Mt 25,43) #Aquarius” — che viene condiviso oppure subissato di critiche. Per Gian Carlo Blangiardo, demografo, responsabile statistico della Fondazione Ismu, il dramma dei migranti si può affrontare solo a livello europeo. “Occorrerebbe elaborare parametri di distribuzione sul territorio europeo anche in relazione alle condizioni del contesto in cui i migranti sono destinati”. L’Italia? “Non può farsi carico da sola dell’impatto migratorio”



Professore, cosa pensa dei ripetuti appelli all’accoglienza da parte della Chiesa italiana?

La Chiesa non ha e non deve avere confini nazionali. L’accoglienza è un valore universale e un dovere per ogni cristiano. Naturalmente si tratta di un compito che va esercitato con una certa saggezza. Non si possono ignorare alcuni limiti, sia rispetto a “quanti” che rispetto a “chi” viene accolto. Questo non per discriminare, ma solo  per  poter dare a tutti, a chi accoglie e a chi è accolto, le garanzie di una condizione di vita dignitosa.   



Si può conciliare la posizione dei vescovi con la linea politica del governo?

Diversamente da quella dei vescovi, la linea del Governo rivolge lo sguardo entro i confini nazionali. Per il Governo del nostro Paese accogliere significa sia rispettare norme e accordi internazionali, sia tenere conto dei valori e della sensibilità della popolazione italiana. Tutto questo va però interpretato con senso della realtà, senza che la consistenza e la localizzazione di chi è accolto possa mettere a repentaglio equilibri e relazioni all’interno del Paese. Se per i vescovi l’accoglienza è la manifestazione di una virtù che il “popolo dei fedeli” vuole e ritene giusto venga esercitata, per il Governo si tratta di una decisione che viene presa in accordo ai  principi e agli impegni di un Paese civile, ma rispetto alla quale si sa che il consenso del “popolo dei cittadini” non è affatto uniforme. 



Come giudica il caso della nave Aquarius? Si è ridotto un problema umanitario a questione politica?

No, perché gli aspetti sono entrambi compresenti e non si può prescinderne. La questione politica viene in luce non appena si riflette sul fatto che la Spagna non è mai stata benevola rispetto ai flussi migratori provenienti dall’Africa e adesso improvvisamente si scopre generosa. Un’accoglienza funzionale alla contrapposizione tra una Spagna buona e un’Italia cattiva. 

Cosa pensa della scelta fatta dal ministro dell’Interno Matteo Salvini?

Temo che fosse l’unico modo per chiamare il resto della Ue a una maggiore responsabilità. Non possiamo continuare ad accettare passivamente che l’Italia agisca da molo che si protende nel Mediterraneo e sia costretta a farsi carico da sola dell’impatto migratorio.

Il problema Libia?

Rimane. Occorre sedersi a un tavolo per trovare soluzioni che chiamino in causa gli organismi sovranazionali come le Nazioni Unite, che danno ricette ma non si fanno coinvolgere e forse potrebbero svolgere un ruolo più attivo.

L’Italia, d’accordo con altri paesi europei, ha fatto saltare la proposta di riforma del trattato di Dublino voluta dai paesi contrari alla ripartizione dei migranti tra i paesi membri. Secondo lei dove sta la soluzione?

Ciò che chiamiamo Europa non è qualcosa di omogeneo da tanti punti di vista, economico, sociale, della mobilità interna. E’ chiaro che in un mercato del lavoro debole la presenza di immigrati genera problemi, per cui una ripartizione basata semplicemente sulla popolazione residente non basta e finirebbe col creare col tempo ulteriori sofferenze. Occorrerebbe elaborare parametri di distribuzione sul territorio europeo anche in relazione alle condizioni del contesto in cui i migranti sono destinati.

Ma è fattibile?

Non vedo altra soluzione che quella di sedersi a un tavolo e parlarne, evitando egoismi nazionali o condizionamenti di natura politica a livello internazionale. Anche se purtroppo oggi ci sono entrambi.

La Francia respinge senza se e senza ma, la Germania seleziona gli immigrati che le servono. Questi interessi confliggono con i nostri?

Siamo stati per un po’ di anni l’attracco di chi spesso era diretto altrove. Il meccanismo ha funzionato quando i confini verso l'”altrove” erano abbastanza permeabili, ma negli ultimi due anni questa libertà di movimento si è fortemente ristretta. Dobbiamo trovare le modalità per concordare una redistribuzione che non gravi eccessivamente sui territori di prima destinazione e che sia negli interessi delle stesse persone che arrivano.

Il secondo governo Berlusconi, nel 2002, approvò una legge sulle politiche migratorie molto discussa, la Bossi-Fini. E’ ancora adeguata?

La Bossi-Fini si può revisionare nei suoi aspetti tecnici, adeguandoli al contesto mutato, ma io credo che il principio ispiratore sia ancora valido, perché basato sulla funzionalità dell’immigrazione. Se facciamo eccezione per le vittime delle guerre e per i rifugiati politici, il principio di fondo che gli immigrati dovessero essere orientati a un “inserimento” nella società di arrivo — oggi diremmo integrazione — e che questo debba avvenire attraverso il lavoro, accompagnato dal ricongiungimento dei familiari e in vista di una stabilizzazione, ha una sua razionalità.

Ne è così convinto, professore?

Quella legge, nel tempo, non ha prodotto i problemi che spesso si credono. In Lombardia, regione già densamente popolata, tra il 2001 e il  2018 si sono aggiunti un milione di stranieri e questo è avvenuto in maniera abbastanza tranquilla, senza rivoluzioni, senza scontri per la mancanza di lavoro o per occupare una casa.

Ma oggi i flussi migratori sono completamente mutati. C’è chi parla di invasione vera e propria.

Gli sbarchi colpiscono il nostro immaginario, i movimenti sono diversi ma non è che in passato fossero meno intensi: il saldo migratorio con l’estero in quegli anni aveva punte di 350/400mila unità; il censimento 2001 attestava un milione e 300mila stranieri residenti, oggi siamo a più di 5 milioni. Erano diverse le provenienze: da Est Europa, America latina, Asia, in misura nettamente minore dall’Africa, mentre adesso ha assunto un forte rilievo anche l’Africa subsahariana.

I movimenti migratori dall’Africa verso il Mediterraneo sono causati da guerre, oppressione, restrizioni della libertà religiosa?

No, solo in minima parte. Non a caso circa la metà delle domande di protezione/asilo non vengono accolte e lo status di vero e proprio rifugiato viene concesso in circa un caso su 20. 

In che misura sono un frutto obbligato della globalizzazione e in che misura non lo sono?

Chi si muove concepisce innanzitutto un progetto, sulla base delle informazioni che possiede o che raccoglie, valutandolo insieme alla famiglia e a coloro che spesso diventano gli stessi finanziatori dell’emigrazione. La differenza rispetto al passato è che questo tentativo di upgrade del benessere collettivo e individuale avviene in un contesto decisamente più ricco di informazioni, anche se spesso tali informazioni sono superficiali e non veritiere. E’ evidente che tutto questo ha come riflesso un indebolimento della “qualità” nella popolazione di partenza.

Partono i migliori, il capitale umano si impoverisce.

Sì. Se vogliamo creare le condizioni per contenere l’esodo, è bene rifletterci attentamente.

(Federico Ferraù)