In un mondo così accelerato, come quello in cui viviamo, non ci stupiamo affatto che cambi velocemente anche il sistema di classificazione delle patologie. L’Oms, punto di riferimento per medici di tutto il mondo, ma anche per tutti i sistemi sanitari, nazionali ed internazionali, ha elaborato proprio in questi giorni una nuova versione della Classificazione internazionale delle malattie, Icd: International Classification of Diseases. Una classificazione che desta alcune perplessità, proprio per i criteri utilizzati nella nuova classificazione.
Di fatto nella classificazione delle patologie l’Oms questa volta, invece di concentrarsi sulle cause delle malattie — i classici criteri ezio-patogenetici —, ha elaborato la nuova classificazione mettendosi nei panni dei pazienti. Ossia ha sostituito il criterio dell’oggettività scientifica con quello della soggettività del paziente; ha messo in primo piano il suo vissuto e la risonanza emotiva che può creare in ognuno di loro l’inserimento della malattia da cui è affetto in una classe, piuttosto che in un’altra.
In un certo senso ha posto il paziente al centro del sistema classificatorio, prescindendo però dall’oggettività dei suoi sintomi e delle cause da cui dipendono, ed enfatizzando invece il significato che il paziente attribuisce alla sua malattia e il giudizio, lo stigma, che il contesto sociale attribuisce a ogni diversa malattia. In un certo senso recupera l’antico, antichissimo criterio, che già Ippocrate aveva messo in discussione, per evitare che si parlasse delle malattie come colpa e quindi si evocasse il meccanismo della punizione (con Ippocrate celebriamo la nascita della medicina scientifica, proprio perché si impone la massima attenzione allo studio delle cause, che con la cultura del tempo si cercano soprattutto nelle condizioni ambientali e nell’alimentazione).
La nuova classificazione intercetta infatti assai più la soggettività del paziente che non l’oggettività scientifica e con questa sua rivoluzione copernicana in realtà la riconduce in epoca ben più antica. La nuova classificazione, in piena coerenza con lo spirito del nostro tempo, è disponibile su web e pertanto è accessibile a tutti i pazienti, che desiderano consultarla per capire il loro disagio e la loro sofferenza. A questa scelta non è estranea la mentalità più tecnologica che scientifica dei pazienti, che attualmente hanno preso l’abitudine di consultare vari siti internet prima di prendere contatto con qualsiasi altro esperto. E quindi entrano in contatto con la loro diagnosi per direttissima, senza la mediazione del medico, che possa spiegare e rispondere a domande che scaturiscono dalla loro fragilità emotiva, prima ancora che dalla curiosità scientifica.
Il fatto che prima di confrontarsi con un qualsiasi altro esperto, riconoscano al web un’autorevolezza del tutto discutibile, li espone a fare i conti con le loro paure in una solitudine che può essere molto difficile da accettare. Ma è il rischio di chi antepone al dialogo con il medico la “sacra” parola del web. Non stupisce quindi che essendo per la prima volta l’Icd completamente accessibile a tutti, grazie alle nuove tecnologie informatiche, si sia messa in evidenza una sorta di misura protettiva per i pazienti, con un linguaggio pensato per loro e formulato su misura per i loro possibili vissuti, anteponendo il tutto al linguaggio rigorosamente asciutto con cui si parla a medici esperti, in grado di decodificare correttamente le informazioni che trovano nei testi scientifici, comunque strutturati.
La nuova edizione dell’Icd verrà presentata agli stati membri dell’Oms in occasione dell’Assemblea mondiale della sanità, in programma a maggio del 2019, ma per la sua adozione bisognerà aspettare gennaio 2022. L’Oms ha calcolato che ci vorranno almeno due anni perché le informazioni raggiungano le persone che dovranno porre le nuove diagnosi, mettendo in discussione il sapere fin qui utilizzato nella loro attività professionale.
Sono molte le modifiche che la nuova classificazione riporta rispetto alla versione precedente, e ovviamente riflettono non solo i progressi della scienza e della tecnica in campo clinico, ma anche il contesto sociale, in cui viviamo, il vissuto che ogni singola patologia suscita e l’interpretazione culturale che condiziona la qualità di vita delle persone.
Due di queste diverse collocazioni delle patologie appaiono indubbiamente interessanti, anche per le motivazioni che ne vengono date. Per esempio tra le disfunzioni sessuali, precedentemente classificate nell’ambito della salute mentale, la transessualità non è più classificata tra le malattia di tipo psicologico e mentale, ma attualmente si trova in una specifica sezione: quella della “salute sessuale”. La ragione addotta dall’Oms per rimuovere l’incongruenza di genere dalla categoria dei disordini mentali dell’Icd e inserirla nel nuovo capitolo delle “condizioni di salute sessuale” è che la precedente classificazione causava una enorme stigmatizzazione per le persone transgender. D’altra parte che si tratti di una patologia vera e propria, per cui si è dovuta creare una specifica collocazione, nasce dal bisogno di importanti cure sanitarie necessarie a questi soggetti e che possono essere soddisfatti solo se la transessualità rimane all’interno dell’Icd stesso.
In definitiva la transessualità resta una patologia ad alta densità di cura, a cui proprio per venire incontro al vissuto del soggetto e rimuovere lo stigma sociale si è dedicata una diversa collocazione, nella speranza di ottenere una migliore accettazione sociale degli individui e, a cascata, migliorare l’accesso alle cure riducendo la disapprovazione sociale. Sintetizzando si potrebbe dire che si tratta di garantire comunque ai transgender l’accesso ad adeguati trattamenti sanitari, considerandoli malati ma non colpevoli.
E qui si riapre un lungo dibattito sul senso della malattia, sulle sue cause non solo biologiche, sulla complessità del vissuto con cui ognuno di noi entra in relazione con il proprio corpo e con il proprio orientamento sessuale, ma questo è un altro discorso che non rientra nei moderni criteri di classificazione delle malattie, che evidentemente hanno abdicato al rigore scientifico per assimilare una volta di più il criterio dei propri desideri, delle proprie paure e delle proprie aspettative.
In compenso però la nuova classificazione ha introdotto tra i disturbi della salute mentale la dipendenza dai videogame, sempre più diffusa anche tra i piccolissimi, riconoscendola formalmente come una patologia. Anche in questo caso l’argomentazione utilizzata dall’Oms è speciosa: non una logica scientifica!, ma la speranza che il riconoscimento di questo tipo di dipendenza possa favorire il ricorso a opportune terapie. Giocare ai videogames infatti può creare dipendenza e indurre ad un comportamento talmente compulsivo da distogliere la persona che ne soffre dalle altre attività della vita quotidiana: nel caso dei bambini lo studio, il rapporto con i coetanei, ecc. Quello dei videogame d’altra parte è un settore in crescita a livello mondiale, il cui fatturato annuale per l’Entertainment Software Association aumenterà del 31% entro tre anni. Anche se dubitiamo che basti inserire la dipendenza da videogame tra le patologie di tipo mentale per ottenere una riduzione dell’offerta di gioco. E questa è una delle macro-ipocrisie del governo, che avendo il monopolio dei giochi, in particolare del gioco d’azzardo, prima incoraggia il gioco, come fonte di ricavi, e poi destina quote irrisorie di quel fatturato alla cura dei pazienti, piccoli e grandi che siano. Ma chissà che l’intervento dell’Om che ne riconosce la specificità come malattia mentale non faccia rinsavire il nuovo governo e non lo spinga a fare una legge di tutela ad hoc. Perché almeno in questo caso la malattia mentale si potrebbe prevenire…