La consegna alla Fondazione Enrico Berlinguer del revolver che fu utilizzato nell’attentato a Palmiro Togliatti settant’anni fa ci ricorda un momento tragico della nostra storia nazionale. Provvidenziali (nel vero senso del termine) furono allora le parole sussurrate sul letto d’ospedale dal segretario del Partito comunista italiano. Evitarono un’insurrezione armata dall’esito oscuro e incerto. E che avrebbe confutato, detto tra noi, le decisioni dei tre Grandi (specialmente quello russo) alla conferenza di Yalta, che assegnava incontestabilmente l’Italia all’Occidente.
L’Italia è da sempre un Paese sull’orlo di una crisi di nervi, in bilico su una linea di faglia. D’altra parte non è mai stata una nazione compiuta, semmai è sempre stata una straordinaria civiltà, come ci ha ricordato qualche giorno fa Mattia Feltri sulla Stampa. È l’Impero Romano, il Rinascimento, che hanno avuto un respiro universale e mai nazionale. Nel suo piccolo l’Italia è spesso null’altro che un insieme caotico di municipi e micro-aree regionali. È l’Italia dei campanili, piccina e micragnosa. Un comune contro l’altro, quando va bene. Quando va male, una contrada contro l’altra, con annessa una gara traditrice e simbolicamente sanguinosa, con un’effigie della Madonna in palio. Un’Italia che rassomiglia alcune volte alla Colombia, con metà del territorio inquinato dalle mafie e non dalle Farc. Con cui non è quindi proprio possibile trattare.
Anche negli anni Settanta l’Italia fu scossa da un processo di polarizzazione sociale che la spinse sull’orlo, se non proprio di una guerra civile, di un conflitto che ne avrebbe lacerato la fragile coesione politica. Gli anni della lotta armata ne furono poi l’acme e il paradigma.
Più che il ceto politico, è il tessuto della società civile ad essere drammaticamente deficitario.
Oggi, di nuovo, l’Italia si polarizza. E tornano alla ribalta, forse in posizione egemonica, quelli che Giuliano Ferrara chiama sul Foglio di ieri i “fascisti naturali”. Il popolo del “socialismo degli imbecilli”, aggiungo io.
Da questa dannazione, una sola prospettiva ci può salvare. Ne fummo in tanti convinti, almeno per quasi un ventennio. Sicuri ch’era fatta, che avevamo finalmente una Patria vera. È l’Europa, di cui bisogna essere fieri e che va difesa con le unghie e con i denti. L’Europa di Immanuel Kant, di Adam Smith, di René Descartes, di Giambattista Vico. L’Europa che ha partorito la democrazia rappresentativa di stampo liberale, lo Stato di diritto, l’economia sociale di mercato, i diritti dell’uomo. E che l’uomo in questione è anche donna e non può subire discriminazione per qualsivoglia sua particolarità.
È l’Europa, che ci consente di accettare questa nuova sfida senza paura. Lo sfascismo non passerà!