Mi immagino la faccia dei bimbi. Non è difficile immaginarla. “Mamma, mamma, è arrivato il robottino! Canta, balla, fa vedere i filmini! È bellissimo!” Siamo a Padova, asilo nido “Il bruco”. Il robottino si chiama Sanbot, è alto 90 centimetri (come loro! Mica una specie di gigante come i grandi…), sa ballare, cantare e giocare. Viene dall’ospedale della città, lì da tempo fa compagnia ai piccoli degenti. Credo che pochi posti al mondo possano essere tristi come il reparto pediatrico di un ospedale; e allora che bello che ci sia un robottino che fa compagnia ai piccoli degenti, gioca con loro, strappa loro un sorriso. E se funziona in ospedale, perché non provare a usarlo anche fuori? Tra l’altro, è un genio, il robottino. Capisce e parla 65 lingue. Sessantacinque! Pensate alla povera maestra, costretta ad arrabattarsi fra cinesini, arabini, slavini di cui non capisce una parola: basta farli parlare con Sanbot, lui capisce e traduce; la maestra risponde, e lui riferisce la risposta nelle lingue di tutti!
Preso dalla notizia, comincio a fantasticare. Che straordinario compagno di giochi dev’essere Sanbot! Gioca con te a quello che vuoi, ma non ti vuol sempre portar via quel che hai in mano, come fanno gli altri bambini (è facile, direte, Sanbot non ha le braccia; ma io mi immagino già i suoi successori evoluti, è solo questione di tempo). Poi non si arrabbia, non grida, gioca sempre a quel che vuoi tu. O forse no: il suo successore intelligente sa quanto tempo è bene che tu dedichi a un gioco oppure a un altro, dopo un po’ ti fa un’altra proposta, sempre intelligente, sempre finalizzata al tuo equilibrato sviluppo fisico e intellettuale.
Anzi — la fantasia ormai galoppa —, perché limitare Sanbot al ruolo di assistente delle maestre? Le maestre — sono umane — si stancano, si innervosiscono, non ti capiscono. Sanbot no: è sempre lucido, calmo, paziente. È perfino in grado di capire le tue emozioni e di regolarsi di conseguenza (“Grazie all’utilizzo di sensori capiscono lo stato d’animo di chi gli sta di fronte”, garantisce Roberto Mancin, dipartimento di salute della donna e del bambino dell’Università di Padova, che segue i progetti di robotica pediatrica. Io confesso il mio stupore; ma ho imparato da Shakespeare che “esistono più cose in cielo e sulla terra di quante ne contenga la [mia] filosofia”, e mi fido).
E allora, perché non affidare addirittura a lui una classe? Tra l’altro, non si dimentica niente, e al colloquio con le mamme sarebbe in grado di ricostruire per filo e per segno quel che Giacomino o Maria hanno fatto, di rendere ragione di tutte le proprie scelte, dei propri interventi…
Dove voglio arrivare? A una conclusione semplicissima. Per tirarla, mi servo di un esempio (che zoppica più del solito, ma il lettore capirà). I nostri alunni vivono in simbiosi con i loro smartphone. Per lo più, le scuole vietano loro di usarli in classe. Per lo più, con risultati prossimi allo zero. Io non ho mai vietato loro di usarli. Anzi. Mille volte, quando mi hanno chiesto una cosa che non sapevo, quando si trattava di controllare un dato, di approfondire una curiosità nata chissà come, ho detto loro: “chiedetelo a Google”. Faccio gli schemi alla lavagna, alla vecchia maniera, col gesso o il pennarello; loro li fotografano e li condividono. E così via. È da sciocchi combattere la tecnologia. Bisogna imparare a usarla, e a non esserne usati (checché ne dica Severino).
I robot, nati dall’intelligenza umana, all’intelligenza umana sono una sfida. Che cosa ho io più di loro? Che cosa posso dare io ai miei alunni, ai miei figli, che Sanbot non può dare? Se sono in grado di dare una risposta a questa domanda, Sanbot — come, nel loro piccolo, i cellulari dei miei alunni — sarà uno strumento utilissimo; se non so rispondere, è giusto che Sanbot prenda il mio posto.