Caro direttore,
premetto subito che ho sempre apprezzato e stimato Salvatore Abbruzzese. Ma la lettura del suo ultimo articolo apparso sul sussidiario mi ha spinto ad alcune considerazioni.

Non metto, certo, in dubbio le incapacità e le speculazioni dei Paesi di provenienza, le colpe dei trafficanti e, forse, anche l’azione non chiarissima di alcune organizzazioni private, ma da qui a mettere, tout court, all’indice le Ong, è un passaggio che lascerei fare ad altri. Né escludo, certo, che possano sorgere problemi nei nostri territori, e in altri, ma è difficile non riconoscere che le condizioni di vita di molti Paesi siano una molla fortissima, anche solo parlando dell’Africa, che è comunque componente importante delle recenti migrazioni.



Non sono un sociologo, ma resto sorpreso che nell’articolo siano elencati tanti attori di un progetto nefasto e siano descritti problemi e prospettive, ma non ci sia nemmeno un cenno alle persone che migrano.

Negli ultimi nove anni ho incontrato più di mille immigrati alla scuola di italiano per stranieri di cui sono segretario. Non tutti parlano di sé e dei motivi della loro partenza, o dei particolari del viaggio, ma il fortissimo desiderio di cercare una vita migliore l’ho sentito in tantissimi di loro. In quasi tutti (oltre, ovviamente, al dolore…). Credo non sia diverso da quello provato dagli italiani che sono emigrati nelle Americhe. E questo al di là di ogni azione di malaffare degli operatori elencate da Abbruzzese e nonostante le loro speranze siano, spesso e in gran parte, infondate, giovani o meno giovani che siano. Che poi, loro, proprio per questo si sottopongono a una vita così: la speranza. Una domanda credo si possa avanzare: quanti di loro sarebbero partiti per un viaggio terribile e rischioso se non proprio per questo profondo desiderio, per questa speranza? Scommettiamo?



Mi sorprende, poi, la soluzione proposta nella parte finale dell’articolo, per almeno due ragioni.

La prima è facile: il ministro degli Interni italiano, proprio mentre l’articolo veniva pubblicato, si trovava in Libia per concordare un’azione che sembra coincidere con quella che lo stesso articolo proponeva. Con la conclusione che abbiamo visto. Che a me, normale cittadino senza ruoli o titoli particolari, non è venuta come una novità. Ma per la Libia e gli altri Paesi rivieraschi del Mediterraneo questi uomini e queste donne (a parte l’occasione di sfruttamento che rappresentano per molti) sono meno estranei di quanto lo siano per noi?



Il secondo motivo credo dica qualcosa di più: degli hotspot (o campi di detenzione, o come diversamente siano realizzati e chiamati…) realizzati in Libia invece che in Italia (o Malta, Francia, Spagna…) risolverebbero i problemi indicati nell’articolo? O li sposterebbero al di là del mare (diventando subito buona cosa per “noi”, quindi buona in quanto tale)?

Non sono nemmeno uno stratega, ma (visto che la soluzione prospettata nell’articolo non è realistica) mi viene in mente che per “risolvere il problema” alcuni pensano ad altro. Perché non si può lasciare a metà la cosa. Quindi il passo successivo immaginato da molti (non attribuisco questo intento ad Abbruzzese: non so cosa pensi al riguardo) è quello di pattugliare i confini più a sud, per impedire l’immigrazione sul nascere.

Trascuriamo, per il momento, la sua reale fattibilità: il Sahara misura 5mila chilometri tra Atlantico e Mar Rosso, cosa vorrebbe dire un’azione del genere? Chi la svolgerebbe? Quali eserciti, perché di questo si tratterebbe? Quali accordi si dovrebbero prendere con Paesi e gruppi sul cui territorio dovrebbe essere svolta? Con che tempi? E non dimentichiamoci i costi.

Il punto è: quali sviluppi potrebbero esserci da una tale iniziativa? E, se i pattugliamenti non potrebbero che essere armati, nessuno pensa che così si creeranno tante belle occasioni che, al confronto, perfino i terribili disastri conseguenti alla “crisi” di Libia e altri Paesi potrebbero essere facilmente superati? O sono io che mi invento scenari sbagliati?

Non discuto qui l’esistenza di gravi casi di malaffare e di delinquenza. Ma, per favore, non dimentichiamo quella più vera, quella che produce un “fenomeno” che, pur nella grande diversità, già oggi si pone a confronto con le grandi emigrazioni dall’Europa, e in prospettiva le potrebbe superare grandemente.

Quel che resta è che con questo approccio non ci avviciniamo “alla soluzione” del problema: ci inganniamo con facili, ma impossibili, ipotesi e dimentichiamo fattori importanti della realtà, innescando invece una serie di processi molto gravi, non meno di quelli trattati all’inizio dell’articolo.

Ma per questo ci vorrebbe altro spazio (e competenze superiori alle mie), che però — a questo punto — è francamente inopportuno occupare.