NEW YORK — Ma che sport è questo? Per quanto anni ed anni di scadenti (se non inguardabili) New York Knicks abbiano causato un forte raffreddamento dell’innata passione pesarese per la pallacanestro, come si fa a non guardare i play-offs? Infatti li guardo. Come avrebbe detto Oscar Wilde, resisto a tutto tranne che alla tentazione, nella speranza che si riaccenda la fiamma dell’amore che fu. Cosi cedo alla tentazione, li guardo e provo quel che si prova alla mia età quando si rincontra qualcuno che hai conosciuto bambino: non lo riconosci più. Certo, si tratta sempre di buttare una palla in un canestro, di marcare l’avversario per impedirgli di farlo, di tagliarlo fuori al rimbalzo, correre, saltare, passare…



Sono anni che seguo i playoffs avendo come unica speranza quella di vedere i San Francisco Warriors perdere. Dapprima perché quel gran circo di tiro al bersaglio che avevano messo su mi risultava assolutamente insopportabile, poi perché essendo fuor di dubbio diventati i migliori sulla scena Nba, visto che non è la squadra a cui tieni, non si può che tifare per “gli altri”, chiunque “gli altri” siano. Aggiungiamoci un po’ di innata antipatia per la California, stessa cosa per il giocatore simbolo, quel pistolino di Stephen Curry e pure l’allenatore, un tot di risentimento verso Kevin Durant che ha “tradito” Oklahoma lasciando la sua terra come tutti quei calciatori che si mettono in fila per giocare nel Real Madrid, e la frittata è fatta. E così, forza San Antonio, forza New Orleans, forza Houston! Tutto invano! La mia amata San Antonio è ormai un incrocio tra un’ospizio ed un orfanotrofio sportivo di senza nome, i “Pellicani” di New Orleans sono ancora troppo giovani ed inesperti. Restava la Houston del nostro Mike D’Antoni, e Houston c’è andata vicina per poi affogare a due passi dalla riva nel bagnasciuga fallimentare di una pallacanestro individualistica soffocata dalla cosiddetta “isolation game“. 



Cosa vuol dire? Vuol dire che “il più bravo” della squadra prende la palla, se la tiene per venti secondi e alla fine trova il modo di tirare: se va dentro siamo alla prodezza, se dentro non ci va siamo a quel che effettivamente ed in ogni caso è: una porcheria. Va detto che poi c’è chi in questa “isolation game” è obiettivamente forte e strapazza l’avversario con la sua superiorità tecnico-fisica. Ma c’è anche chi ci prova, ci insiste (l’insistenza è una caratteristica di questo tipo di gioco) e non dovrebbe perché semplicemente non ne è capace, perché più forte degli altri non è. A New York ci siamo annoiati ed infastiditi per anni a guardare Carmelo Anthony… 



Comunque, tornando ai “Guerrieri” di Oakland, one way or another, anche se non dominanti come in passato, sono ancora una volta arrivati alla finale. E così han fatto pure i “Cavalieri” di Cleveland, la squadra di Lebron James. “Guerrieri” contro “Cavalieri”, roba combattiva. Oh, ma son quattro anni di fila che ci spariamo le stesse finali! Ci sono 30 squadre di professionisti e per 4 anni di fila ci ritroviamo le stesse squadre? Eh sì. Perché? Perché i Warriors sono i migliori e Lebron James il più forte. Possiamo dire tutto il male che vogliamo dei Warriors e di James ma nella pallacanestro di oggi si vince così. E giovedì sera nella Oracle arena di Oakland è cominciata la sarabanda della finalissima con Lebron a fare il “Cavaliere” sì, ma solitario, lanciato nella sua personale sfida contro i “Guerrieri”, tutti i guerrieri e tutti i records di questo sport. Ed il bello è che stava per vincere. Yes, stava per vincere da solo contro tutti i Guerrieri. Solo che JR Smith, il suo compagno d’avventura che si è ritrovato in mano la palla della possibile vittoria a 4 secondi dalla sirena, s’è confuso e con quella palla non ha saputo cosa farci. Del resto dopo aver visto e toccato la palla così poco per tutta la durata della partita cosa ti aspetti da un giocatore? Tutti si prova a difendere, tutti si prova a recuperare il rimbalzo, ma fatto quello, via con lo schema d’attacco: palla a James e tutti in piedi fermi come birilli attorno al canestro ad aspettare che King James decida come tirare. A guardare i suoi compagni di squadra ieri sera sembrava che la palla scottasse nelle mani: “scusa Lebron, te la passo subito! Giuro che non la tocco più!” Ma che roba è? Non si può far di meglio?

E quegli altri, dico i Warriors, campioni in carica di un grande gioco di squadra si fanno (quasi) sconfiggere da un-giocatore-uno?

Ho provato a guardare game 2, cedendo alla tentazione ancora una volta. Ma non so se andrò avanti con questa serie, perché per cedere alla tentazione bisogna essere tentati.

“Un imprevisto è la sola speranza”…

Sì, è solo basketball, per carità, ma se anche lì cercassimo un po’ di Bellezza?