Del caporalato si parla come di una piaga fatale, che si assomma alle tante piaghe ataviche che incrinano l’immagine del nostro sud. Dove i caporali sono i poveri di ieri, che diventano aguzzini oggi, e i più poveri di loro le vittime. Dove non vige legge, se non lo sfruttamento, la minaccia e quindi la paura, e con la paura le viltà e i tradimenti, anche dei compagni. Il caporalato usa gli uomini come nuovi schiavi, li ricatta, li umilia fino allo stremo, cova l’omertà e la violenza. Sappiamo chi comanda: cosche di criminalità organizzata, mafia ‘ndrangheta camorra sacra corona, e poi la mafia albanese e quella nigeriana, perché non tutti i poveri e non tuti gli stranieri sono buoni, non tutti sono costretti dalla necessità. C’è chi prospera sulla fame e sulla miseria, chi si arricchisce sugli immigrati, ed è sempre lo stato il colpevole, perlomeno di mancata tutela. 



Ma occorre evitare le semplificazioni, o l’utilizzo delle morti a scopo di propaganda politica. Sabato è stato ucciso Sacko Soumalya, un maliano di 29 anni mentre cercava di portar via lamiere da una fabbrica dismessa. Come nelle discariche delle megalopoli africane da cui partono, questi giovani uomini sopravvivono da noi, nella sognata Italia terra promessa facendo lo stesso infimo lavoro, raccattando pezzi di metallo inutile da vendere per pochi centesimi. Ci si uccide per pochi spiccioli, nelle loro terre, e ci si uccide qui. O forse Sacko è stato assassinato con una fucilata perché era tra i pochi ad osare alzare la testa, ricordare che ha una dignità di uomo che non si può calpestare del tutto. E il suo assassinio suona come punizione, o monito. Perché i suoi amici, che ieri protestavano nella tendopoli di disperati di Vibo Valentia, dicono che difendeva tutti, che si dava da fare per chiedere un minimo di giustizia. E se metti in crisi il sistema, il sistema salta. Meglio far saltare lui, a titolo di esempio per tutti, come facevano i negrieri nei campi di cotone coi ribelli. 



Ci si chiede perché ci debba essere una tendopoli di migranti a Vibo Valentia. Chi siano gli uomini che la abitano, cosa li abbia spinti qui, guerra, povertà, e perché mai siano stati parcheggiati lì, ben sapendo quali fila malavitose sarebbero andati a ingrassare. Perché non si aprono le porte fingendo accoglienza, se l’accoglienza significa abbandono. E su questa presunta generosità dell’Italia ci hanno speculato in tanti, criminali dalle mani sporche e dai colletti bianchi. Spiace vedere che, pur con altre responsabilità, si speculi anche col pensiero. Perché non è figlia di un cambio al ministero degli Interni, la morte di Sacko, che non è il primo, e rischia di non essere l’ultimo. Perché metter mano alla scandalosa gestione di troppi migranti in un paese che non riesce a dar loro una vita dignitosa non vuol dire essere fascisti o razzisti. Come ricorda sempre papa Francesco, bisogna spalancare le porte sempre a tutti, finché si può. Finché si è in grado di garantire loro la difesa dei diritti primari: casa, lavoro, scuola, salute. O le porte spalancate per entrare nei gironi infernali dell’emarginazione più bieca sono un’ipocrisia. 



Lo Stato deve combattere le mafie, deve rispedire i criminali a casa loro, da qualunque paese provengano, o impedirgli di nuocere. Lo Stato deve strappare alla paga di due, tre euro al giorno uomini come Sacko, deve toglierli dalle tendopoli, o smetterla di invocare integrazione e inclusività. Termini abusati che sono diventati slogan di comodo, per battaglie politiche che non hanno nulla a che vedere con l’attenzione alle persone, con la strenua opera per il bene comune. Dove comune vuol dire innanzitutto di questi fratelli più deboli e in difficoltà.  Per questo i neoministri dovevano subito, e dovranno, anche se tardivamente, dire una parola netta di condanna su questo tragico evento: i ministri dell’Interno e del Lavoro, perché di lavoro, e di sicurezza si tratta.